Guardare in modo positivo al concetto di hybris
di Roberto Marchesini

Il XX secolo ha visto l'acme e, molto probabilmente, il tramonto definitivo dell'identità forte, cioè di quell'ideale di purezza che, in virtù di una tradizione consolidata nella cultura occidentale, aveva cercato nell'eugenetica di Francis Galton ­ e in alcune successive ricerche da parte anche di autorevoli genetisti ­ una convalidazione scientifica, diffondendosi nei primi decenni del Novecento nel Nord America e nel Vecchio Continente. Purezza e razzismo hanno di fatto costituito un binomio inscindibile, consumandosi poi in episodi di pulizia etnica ricorrenti,sovente in forma strisciante all'interno delle società liberali, ma in forma più massiccia ed eclatante nei regimi totalitari, fondati su una proposizione oppositiva e autoreferenziale dell'identità. Il carattere di diversità ­ espresso attraverso varie forme: il delinquente-degenerato, il teriomorfo, il freak, il pazzo, la persona-cosa o l'essere contro-natura ­ è stato utilizzato puntualmente come rivelatore di inferiorità e/o di contaminazione, ove la designazione di alterità veniva tradotta in termini di esclusione dalla cosmopolis umana. Il XXI secolo si candida come l'età della contaminazione:

a) le pratiche biotecnologiche (ingegneria genetica, chimerismo) creano di fatto un'orizzontalità del bios, così pure l'utilizzo di xenotessuti, di organi sintetici, la transfezione con geni artificiali;

b) l'utilizzo sempre più invasivo di tecnologie perfezionate, in grado non solo di apporsi sul sostrato organico ma soprattutto di dialogare con lui e, in certi casi, di controllarne le funzioni, dà vita a nuove performatività.

Sembra proprio che da un'idea di integrità, ricercata con ogni mezzo e associata spesso al concetto eugenetico di razza pura, si sia passati sulla sponda opposta, verso cioè una sorta di retorica del mutante e dell'ibrido. Caduti i pregiudizi di perfezione primigenia e di ontologia compiuta, il Giano darwiniano mostra di colpo la faccia rivolta al futuro per aprire la stagione magmatica di un uomo in compimento, dove le mutazioni, le ibridazioni, le infezioni/invasioni alla cosmopolis umana perdono il loro carattere di pericolo e divengono opportunità. Il concetto di uomo, già mobile da un punto di vista biologico, diventa pertanto estremamente esile nelle sue misure (e conseguentemente nella pretesa di un'identità forte) e si allarga a una sorta di pluralità ontologica caratterizzata dalla diversità e dalla transitorietà delle scelte. L'edificio umano si trasforma in un'architettura proteica, in continua mutazione e caleidoscopica nelle polisemie: insomma un vero e proprio laboratorio di possibilità. La frattura operata da Darwin non può infatti non ripercuotersi sul modo in cui l'uomo interpreta se stesso: la temperie post-evoluzionista cambia completamente l'orientamento nei confronti del concetto di "hybris" che da rischio, pericolo, peccato diventa motore di coniugazione dell'uomo verso il mondo.Se la purezza non è più un obiettivo e un valore è conseguente che venga a perdersi il dettato stesso che attribuiva all'hybris forti connotati di negatività. Ed è proprio nei conversi della valutazione morfologica che con maggiore eclatanza si dispiega il diverso modo di intendere il concetto di "hybris" e di proiezione post-human. C'è pertanto una relazione che lega il postumanesimo al pieno superamento del concetto essenzialistico di "purezza" e la strettoia, che non è possibile by-passare, sta proprio nella riconsiderazione del concetto di "hybris". Ritengo pertanto che meriti un approfondimento.

Riprendendo quanto riportato da Nicola Abbagnano (1998, p. 547), con il termine di "hybris" "i Greci intesero una qualsiasi violazione della norma della misura cioè dei limiti che l'uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini,con la divinità e con l'ordine delle cose". Già in queste parole è rinvenibile il primo punto fermo nella cosmontologia ellenica: la misura come ordine e come volano di armonia tra i diversi enti. È evidente il presupposto che ordine e armonia siano in qualche modo entità inseparabili: ove l'ordine si riferisce alla posizione reciproca dei diversi enti, rispetto alla possibilità di dar vita, per esempio, a configurazioni geometriche o a strutture capaci di disvelare una logica interna ­iterativa, ricorsiva, speculare ­ mentre l'armonia è conseguente alla giusta relazione tra le cose, tale da permettere moti predittibili, in quanto lontani dai flussi caotici, e in reciproco equilibrio. Ordine e armonia rivelano il profondo bisogno di porre un argine al divenire, vale a dire individuare dei limiti ontologici, dei domini morfici e di moto, capaci di mantenere il sistema in uno stato di motilità apparente. Logica conseguenza di questa interpretazione è la tendenza a considerare il cambiamento come qualcosa che si oppone alla natura delle cose e quindi a ritenere qualsiasi mutamento come pericoloso e blasfemo. L'ordine tramandatoci dalla tradizione filosofica postellenica è fortemente antropocentrato; mentre in un sistema complesso parlare di ordine significa in qualche modo rinvenire strutture a rete, ridondanti e sviluppate in modo ricorsivo, tali cioè da assicurare processi di auto-organizzazione e di etero-organizzazione, l'ordine essenzialista è una riduzione della complessità di rete, una potatura sulla ridondanza, la trasformazione della ricorsività diacronica in una struttura multistratificata, ove ogni piano mira a una propria congruenza e autarchia esplicativa in modo sincronico. L'ordine che ci ha lasciato in eredità la cultura greca è mortificante nella sua staticità e nella semplificazione dei processi causali. Pensare il diacronico come a una sequenza di entità cronologiche autoriferite toglie qualsiasi possibilità di esplicare i sistemi ricorsivi sviluppati diacronicamente. L'ordine celebrato da Platone non è altro che una proiezione dell'uomo sul mondo, la pretesa di essere a casa nell'universo ovvero di addomesticare l'universo affinché diventi uno spazio antropico, tale da permettere inferenze e deduzioni intuitive anche negli angoli incogniti. È perciò un ordine che pretende di leggere il mondo esclusivamente in modo deduttivo, un ordine mappale che desidera trasformare la realtà esterna in una rappresentazione per dare all'uomo la sicurezza che in qualunque angolo remoto ­ nello spazio come nel tempo, nella conoscenza come nell'interpretazione ­ egli potrà avvalersi dei propri apparati epistemologici per muoversi in modo adeguato: sarà comunque a casa. Allo stesso modo l'armonia, come disposizione finalistica e organizzata delle relazioni, dalle interattività olistiche dei Pitagorici al concetto di "armonia prestabilita" di Leibniz, è una caratteristica che parimenti chiude il sistema e in un certo senso è chiusa in se stessa. L'armonia è organizzazione autarchica, saldatura autopoietica di parti che pur seguendo ciascuna la propria legge sviluppano accordi reciproci. Leibniz immaginava queste monadi come orologi sincronizzati tra loro, pur essendo ciascuno mosso dai rispettivi meccanismi. Una delle caratteristiche pregnanti dell'armonia è pertanto la coordinazione tra le parti, lo sviluppo di reciprocità che permettono al sistema di presentare una coerenza d'insieme. L'armonia è perciò misura di un preciso registro capace di rendere sintoniche le diverse pulsioni, è accordo d'insieme è fusione di istanze differenti in un complesso che tutte le realizza e tutte le rappresenta, è sinfonia. Questa ricerca del passo giusto può essere interpretata pertanto come definizione di equilibrio relazionale e di moto, punto di confluenza e sintesi inappellabile della natura delle cose. L'armonia è pertanto data, misura delle forze in campo, è indice di bellezza e giustizia, kalokagatia che va rispettata in quanto tale e perciò non in discussione. Ordine e armonia riposano pertanto sull'idea di misura, ossia di precise entità che reggono in modo inflessibile e statico il nomos del cosmo. Riprendendo Abbagnano: "L'ingiustizia non è che una forma di hybris perché è trasgressione dei giusti limiti nei confronti degli altri uomini". Platone sottolinea proprio in questo senso il carattere polisemico dell'hybris, in quanto si dà hybris ogni qualvolta si supera la misura del giusto.Su quest'ultimo punto si innesta la grande ambiguità che il termine hybris ha portato con sé da Platone in poi, da una parte sancendo il predominio dell'antropocentrismo epistemologico, attraverso i concetti di ordine e armonia, dall'altra ­ paradossalmente ­ prestandosi a essere sviluppato sotto forma di critica all'antropocentrismo etico, attraverso il concetto diarroganza come insubordinazione umana al vincolo. In italiano la parola "hybris" viene tradotta ­ operando un'innegabile semplificazione ­ con il termine di tracotanza, nell'inquadrare quell'atteggiamento violento e presuntuoso tipico dell'uomo che non riconosce in sé e nella propria condotta alcun vincolo. Mentre nella cultura classica il peccato di hybris si inquadrava in una sorta di insubordinazione dell'uomo alla divinità, oggi rivela tutta l'ansia dell'uomo contemporaneo nei confronti di un rischio, prima ventilato poi pienamente appalesato, di perdere titolarità nei confronti del suo destino. L'hybris che esce dalla tradizione occidentale, dall'umanesimo in poi, si arricchisce perciò di precise connotazioni prometeiche: affermazione di potere, potenza tecnocratica, libido sciendi, incapacità di riconoscere ananke, il limite, e nomos, la legge. Già secondo Esiodo il processo stesso di antropogenesi si realizza attraverso la mediazione ermetica di dike, la giustizia, e aidos, il rispetto; il concetto di "hybris" da Solone in poi si afferma in virtù di alcune referenze sociali, prime fra tutte fronesis, la saggezza, e sofrosyne, la temperanza. Possiamo pertanto riconoscere nella tradizione ellenica un intento manifestamente conservatore nell'appellarsi al peccato di hybris, in quanto rottura del patto religioso, sociale e naturale che lega l'individuo al mondo. Questo diventa ancora più evidente nella critica alla tecnocrazia sviluppata nel XX secolo da autori come Martin Heidegger e Hans Jonas.Peccando di hybris l'uomo pone una seria ipoteca sul proprio futuro: questo è in pratica il teorema che si tenta di dimostrare, miscelando istanze e presupposti non sempre coerenti tra loro. In tal senso gran parte dell'ambientalismo biocentrista, da Goldsmith a Naess, riprende ­ a mio avviso in modo epistemologicamente suicida ­ il daimon dell'hybris per denunciare la perdita di radicamento dell'uomo. Già Nietzsche (1887) aveva sottolineato questo aspetto: "Hybris è oggi la nostra posizione nei confronti della natura, la nostra violentazione della natura con l'aiuto delle macchine e della tanto spensierata inventività dei tecnici e degli ingegneri". E su questo aspetto vorrei per l'appunto fare una riflessione. Il termine "hybris" è infido e pieno di ambiguità, è una strada carica di trabocchetti che può trasformare in un battibaleno l'accusatore in accusato. Se difatti sembra peccare di hybris il biotecnologo che gioca con le carte di Dio, ancor più peccatore sembra essere il suo accusatore quando cerca di individuare un ordine stabile e antropomorfico nel mondo. Se la parola "hybris" si oppone all'ordine e all'armonia, questi ultimi concetti si oppongono alla complessità del mondo: non si arriva al biocentrismo riducendo o annichilendo l'hybris, bensì si sancisce, sia da un punto di vista ontologico che epistemologico, la piena affermazione dell'antropocentrismo. Il postumanesimo cambia completamente l'orientamento nei confronti dell'hybris che da rischio biocida diventa fomite di vita, scultore della biodiversità. Ed è proprio nei conversi della valutazione morfologica che con maggiore eclatanza si dispiega il diverso modo di intendere il concetto di "hybris". Le espressioni fenetiche della deviazione dall'ordine e dall'armonia prestabilita erano:

a) il deforme, ovvero la destrutturazione morfica realizzata attraverso ipotrofie e ipertrofie a carico dei diversi tessuti;

b) l'informe, ossia la perdita di riconoscibilità morfologica, esito di un arresto nel processo di differenziazione o nella saldatura dipiù parti;

c) l'ibrido, frutto della contaminazione originale ­ in generenel processo di accoppiamento ­ con esiti morfologici intermedi;

d) la chimera, nata dall'assemblaggio di enti (organi, tessuti) provenienti da essenze differenti.

Queste soggettività vengono tradotte dall'umanesimo come entità negative, frutti della colpa ovvero peccati di hybris da allontanare dalla cosmopolis. Con l'avvento della biotecnologia e dell'informatica questo paradigma si ribalta, anche in virtù di un nuovo modo di leggere Charles Darwin, epurando cioè l'evoluzionismo dagli ultimi retaggi teleologisti e ridando valore e significato alla storia. Assegnare positività all'hybris significa perciò accettare pienamente il divenire e l'incertezza del futuro, dimenticando la pretesa simmetria tra previsione e spiegazione. Il deviante riprende il suo posto da protagonista nella storia, scacciando l'Hopeful-Monster: giacché non è mai possibile a priori definire le cosiddette "belle speranze". Abbandonarsi all'incertezza ­ assegnandole un significato euristico, non lo sconforto di una resa senza condizioni al dominio dell'ignoranza ­ vuol dire da una parte aprire l'orizzonte al vasto paniere delle possibilità, dall'altra dimenticare la suggestione di uno schema archetipico di partenza che incarni la perfezione. L'epistemologia dell'ibridazione pertanto non è solo volta a costruire nuove mappe cognitive per il futuro, ma è a rigore uno strumento interpretativo del passato, capace di riannodare il continuum antropologico. Un flusso che ripropone l'hybris attraverso una pluralità di piani ibridativi e di spazi meticciati.Difatti, se il secolo XX è stato caratterizzato dalla tecnologia inorganica, frutto della rivoluzione della fisica nella prima metà del Novecento, il XXI secolo si annuncia come esplosione di una neobiologia perfezionata e applicativa capace di modificare alla base il profilo del nostro quotidiano.L'argine che separa il magma biotecnologico, che si va profilando nei decenni a venire, dall'universo delle macchine, del secolo che si chiude, può essere individuato nella caduta della vecchia opposizione dicotomica tra realtà manipolabile (l'inorganico) e sfera del naturale, a favore di un continuum ibridativo tra le diverse realtà. Non vi è più differenza tra invenzione e scoperta e ogni tentativo di separare questi due ambiti si troverà sempre di più in controtempo. La ricerca biologica e informatica ­ e soprattutto le loro applicazioni di intersezione ­ vanno costruendo una realtà che supera la nostra fantasia ed è sicuramente la prima volta che l'immaginazione viene messa sotto scacco dall'applicazione. Attoniti assistiamo al sorpasso della scienza sulla fantascienza. Il futuro si sta dipanando negli angoli oscuri del nostro presente: non lo sentiamo perché l'eco del passato riempie ancora le prime pagine dei giornali e della televisione, monopolizzando addirittura il cinema e le vetrine delle librerie. Le chimere si aggirano nei nostri sogni e nelle nostre case e, forse per la prima volta, non hanno più paura di peccare di hybris. Stiamo andando verso una realtà caratterizzata dalle contaminazioni e dalla perdita dell'identità. E, d'altro canto, le chimere siamo noi: pasticci organici, transitori e affamati di congiunzioni con l'alterità. Chimerica, e qui nell'accezione negativa, è invece la pretesa di mantenere un concetto umanistico di umanità ossia di tracciare un dominio standardizzato e omogeneo, condiviso tra tutti gli individui, con limiti ben precisi verso il mondo non-umano, sia esso animale o macchinico. L'idea umanistica di un uomo "cifra", pervasivo nella realtà esterna e misura delle cose, si è dimostrata totalmente superata. Viviamo in un'epoca di postumanesimo, una temperie culturale non più informata dalla dicotomia cartesiana, l'utopia che come una forbice ha diviso cose e pensieri. Iniziamo a comprendere che il mondo non-umano non solo è pensato ma è a tutti gli effetti una realtà cognitiva.Parallelamente verifichiamo la frattalità di quell'Homunculus che pretendevamo di porre ai vertici del nostro pensiero. Alcuni studiosi, tra cui il decano Marvin Minsky, ritengono che aumentando la complessità delle macchine sarà possibile in futuro realizzare non solo sistemi in grado di simulare il pensiero umano, ma delle autentiche menti artificiali. Con lo sviluppo dei computer paralleli o dei sistemi informatici organici, i cosiddetti bioputer, molto più efficienti per quanto concerne le capacità di memoria, si potrebbe infatti superare quella soglia critica che permette l'emergere di una coscienza. Secondo altri ricercatori la realizzazione di menti artificiali avverrà molto prima e per un fenomeno spontaneo, non progettato né governato dall'uomo: lo sviluppo di reti informatiche, sempre più articolate e interconnesse, non potrà sfuggire alle ferree regole dei sistemi complessi. L'integrazione tra intelligenza al silicio e intelligenza biologica, tra uomo e altri animali, l'assunzione di teriomorfismi e macchinomorfismi nell'estetica umana testimoniano questo passaggio ontologico epocale. Oggi siamo abituati a pensare le macchine come fredde, obbedienti, inorganiche, regolate da ferrei automatismi o, al massimo, da sistemi di regolazione a feedback e incapaci di estendere e amplificare la nostra performatività in modo biodinamico. Nel prossimo futuro le macchine avranno una composizione ibrida organica/inorganica o addirittura saranno totalmente organiche: quindi calde, opache, capaci di performance cognitive,euristiche e forse ­ perché no? ­ emotive.

Anche allora, fortunatamente, la nostra hybris non sarà ancora sazia.


Estropico