L’immortalità non è di questa Terra, ma fuori….

Di Carlo A. Pelanda

Ambizione antropica. L’immortalità ne è stato il sogno massimo per millenni. Ma le comunità umane hanno potuto trovare soluzioni solo simboliche al problema della morte perché finora non è evoluta una tecnologia tanto potente da eliminarla. Per esempio, inventando miti di continuazione dell’esistenza in forma spirituale, comunque adattandosi a questo limite attraverso la sua rimozione psicologica.

La biorivoluzione sta modificando tale situazione. Le cronache registrano la scoperta  che si invecchia e si muore, soprattutto, perché alcuni geni del cromosoma 4 smettono di lavorare bene. Modificandone di simili nei vermi, nel 1995, si è ottenuto un allungamento della loro vita di circa il 50%. Da decenni, ormai, la scienza trova prove che la causa della morte e degrado fisico sono prevalentemente genetiche: c’è un autolimite.  Probabilmente è la soluzione “trovata” dalla natura per preservare la continuità della vita sul piano complessivo: i fenotipi possono mutare proprio grazie al fatto che sono vulnerabili a mali e morte e lasciano spazio ecologico a loro discendenti variati. In tal modo il genotipo può cambiare veicolo ed adattarsi a nuovi ambienti.

Il piccolo problema è che la coscienza antropica risiede nel fenotipo mortale e non nel gene immortalizzato grazie alla moribilità del primo. Da qui l’ambizione antropica a risolverlo. La biotecnologia è ormai talmente spinta da far prevedere che si arriverà in tempi non remoti ad una genetica capace di ridurre a priori le malattie ed allungare di secoli la vita. E ad un certo punto qualcuno tirerà fuori la cosa più “ovvia”: se possiamo fare uno, tante vale raddoppiare: l’immortalità vera.

Due alternative:

(a) facciamo e poi vediamo perché se ne parliamo  prima i “presentisti” – quelli che vedono il futuro con gli occhi di oggi – si spaventeranno e gli “accettazionisti” (religiosi) demonizzeranno;

(b) regoliamo in base al consenso i passi della rivoluzione, anche per finanziarla.

Sono sensate ambedue. Un organismo potenzialmente immortale dovrebbe essere anche essere  immoribile. Ma per diventarlo dovrebbe poter attuare cambiamenti infiniti, cioè incorporare il meccanismo evoluzionistico. Teoricamente possibile, ma non potrà restare umano né svilupparsi sulla Terra perché l’ecologia chiusa del pianeta non lo conterrebbe. E’ uno scenario incomunicabile: l’ambizione antropica richiede una strategia post-umana. Per arrivarci, tuttavia, i precursori dovranno essere comunicabili.

Soluzione? Sottoporre al consenso i passi umanizzabili, per esempio allungamento solo relativo della vita e supermedicina, sperimentare il resto fuori dal pianeta, senza vincoli: esantropos cosmosapiens.

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La versione originale dell'articolo sul sito di Carlo A. Pelanda (originariamente pubblicato su )

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