La scienza come modello etico
di Riccardo Campa
Istituto di Sociologia, Università di Cracovia

Finito di scrivere il 26 settembre 2004 - Pubblicato ne La Biblioteca dei 500 il 15 ottobre 2004

1. Nota introduttiva

Il dibattito accesosi intorno alle più recenti scoperte scientifiche e tecnologiche - in particolare la tecnica della clonazione, la creazione di organismi geneticamente modificati, la fecondazione artificiale, i computer biologici - ha riaperto l'annoso e mai sopito dibattito sugli aspetti morali e sociali della scienza. Diciamo "mai sopito" perché il discorso si innesta su discussioni antecedenti. Tra le due guerre mondiali gli scienziati erano stati messi sotto accusa per il contributo dato alla costruzione delle armi chimiche. Nella seconda metà del Ventesimo secolo la polemica era divampata riguardo la progettazione e costruzione delle armi atomiche e batteriologiche. E negli ultimi due decenni si è registrata anche una dura battaglia riguardo lo status epistemologico della scienza pura nei dipartimenti di scienze sociali, con una minoranza di filosofi e sociologi in difesa della scienza e una maggioranza contro. [1]

Il dibattito ha dimensioni planetarie e non poteva non toccare l'Italia, che - nonostante investa poche risorse nella ricerca scientifica - resta uno dei paesi più industrializzati e tecnologicamente avanzati del mondo. Nel nostro paese, la discussione si è fatta subito molto intricata, per non dire confusa. La ragione è che i tradizionali movimenti intellettuali, politici, e religiosi si sono divisi sul problema. Si è vista in campo una critica alla scienza e alla tecnologia proveniente dal mondo cattolico, ma anche una difesa di esse proveniente da prelati, nonché da intellettuali, scienziati e politici di fede cristiana. Anche il mondo laico è risultato diviso, con intellettuali e politici di orientamento progressista e modernista corsi in soccorso della scienza ed altri di orientamento luddista, postmoderno o ecologista su posizioni più o meno apertamente antiscientifiche. I partiti pro e contro la scienza sono trasversali e attraversano tutto l'arco parlamentare.

La discussione sui problemi morali sollevati dalle nuove tecnologie, in Italia come all'estero, oggi come in passato, ha assunto toni piuttosto accesi e si è spesso allargata investendo la ricerca scientifica in quanto tale. La scienza pura viene attaccata con due strategie: una piuttosto rudimentale che fa presa sull'uomo comune ed una più sofisticata diretta al mondo degli intellettuali. La strategia rudimentale consiste nel presentarla come un tutto indistinto con la tecnologia. Significativo è in questo senso il vocabolario adottato dai guru del pensiero postmoderno, tra gli altri da Bruno Latour e Gianni Vattimo, che hanno adottato il termine "tecnoscienza" anche in pubblicazioni popolari. [2] Non si nega che oggi vi sia uno strettissimo legame tra ricerca scientifica e applicazioni tecniche, tuttavia come ha bene argomentato Budinich le due attività restano concettualmente distinte e distinguibili. [3] Inoltre, la distinzione regge non solo sul piano logico, ma anche sul piano storico fattuale. Boncinelli ha infatti evidenziato che la tecnica ha cominciato ad esistere ben prima della comparsa della scienza moderna, [4] ed è altresì noto che la scienza è inizialmente esistita indipendentemente dalle applicazioni tecniche, tanto che in riferimento alla civiltà greco-romana si parla di "fallimento tecnologico". [5] Tuttavia, il movimento antiscientifico sa bene che può mettere l'uomo comune contro la scienza solo con argomenti semplici e diretti, anche se infondati, e perciò accusa direttamente la tecnoscienza degli effetti indesiderati dell'industrializzazione (inquinamento, alienazione metropolitana, limitazione della privacy, invadenza dei media, guerre mondiali, ecc.).

La strategia più sofisticata, inizialmente diretta al pubblico colto e agli intellettuali ma avente effetti crescenti anche sul cosiddetto uomo della strada, insiste sulla debolezza del sapere scientifico e razionale, che non avrebbe il diritto di attribuirsi uno status epistemologico privilegiato. In parole semplici, la scienza con conterrebbe più verità di altre forme di conoscenza come la magia, l'alchimia, la stregoneria, l'astrologia, le religioni, l'occultismo, ecc. [6] Tra l'altro, sarebbe peggiore di queste sul piano umano, perché non dà speranze, non offre visioni assolute e rassicuranti. Queste tesi, al pubblico meno preparato sul piano filosofico e sociologico, e quindi non in grado di cogliere certi argomenti sofistici, giungono indirettamente e in forma molto rudimentale: "la tecnoscienza è un male" ma non preoccupatevi perché "si può credere in ciò che si vuole". [7]

2. L'ignoranza della scienza come problema di base

La visione antiscientifica fa breccia nell'opinione pubblica. Alla base di questo successo c'è anche l'ignoranza dei metodi e dei risultati dell'impresa scientifica, alla quale cercano di porre rimedio i divulgatori scientifici. Tuttavia troppo esigue sono le risorse investite in questa direzione e i risultati non possono non preoccupare. In America, ovvero il paese più tecnologicamente avanzato del mondo, secondo una ricerca di Gallup & People per "American Way Foundation", la situazione è la seguente:

Il 68% degli americani vuole il creazionismo biblico insegnato nelle scuole insieme alla teoria dell'evoluzione.

Il 45% vuole solo il creazionismo e non l'evoluzionismo nelle scuole;

Il 70% ritiene la teoria dell'evoluzione compatibile con l'Antico Testamento;

Il 42% crede che le case possono essere stregate;

Il 38% crede nei fantasmi;

Il 28% crede che si possa comunicare con i morti;

Il 28% crede nell'astrologia.

Questa allarmante situazione viene confermata da una ricerca effettuata nel 2002 dalla "National Science Foundation", secondo la quale:

Il 70% degli americani adulti non capisce il processo scientifico;

Negli ultimi dieci anni c'è stata una crescita con percentuali a doppia cifra delle persone che credono nelle case stregate, nei fantasmi, nella comunicazione con i morti;

Gli Stati Uniti dipendono fortemente dagli scienziati stranieri, tanto che gli specialisti di scienze tecnologiche "importati" sono ben il 45%;

È molto esteso e continua a crescere la credenza nelle pseudoscienze;

Il 60% degli americani crede che alcune persone possiedano poteri psichici o percezioni extrasensoriali;

Il 30% crede che gli UFO siano veramente veicoli spaziali provenienti da altri mondi;

Il 30% legge gli oroscopi;

Il 46% non sa dire quanto tempo impiega la terra a compiere un'orbita attorno al sole (un anno);

Il 45% crede che il laser funzioni sulla base di onde sonore;

Il 49% crede che gli antibiotici uccidano i virus (uccidono i batteri);

Il 66% non crede nella teoria del Big Bang, ampiamente accettata dagli scienziati;

Il 48% crede che gli uomini siano vissuti al tempo dei dinosauri;

Il 47% non crede nella teoria dell'evoluzione che è ampiamente accettata dagli scienziati;

Il 55% non sa definire il DNA;

Il 78% non sa definire una molecola;

Il 32% crede nei "numeri fortunati".

Tutti questi dati dimostrano che l'ignoranza e la disaffezione nei confronti della scienza non sono residui della civiltà contadina. Lo dimostra il fatto che la situazione è peggiorata negli ultimi dieci anni. Le superstizioni non sono solo retaggio della tradizione, ma anche il risultato dell'azione combinata del postmodernismo popolare e dei mass media. Le televisioni e i giornali hanno trovato molto lucrosa la vendita di astrologia, magia, ufologia, occultismo, pseudoscienze ed sono riusciti a giustificare il tutto sul piano filosofico grazie alla compiacenza non proprio disinteressata [8] degli intellettuali postmoderni.

3. Il mito dell'amoralità (o immoralità) della scienza

La questione epistemologica ha dunque un'importanza strategica anche perché in essa è implicita la tesi che la violazione della morale non riguarda solo le applicazioni tecnologiche, ma la stessa scienza pura. Essa distruggerebbe credenze, producendo infelicità, senza averne il diritto. Qui starebbe la sua immoralità.

È evidente che, di fronte a tale argomentazione, ribadire la distinzione tra scienza e tecnologia, risulta un argomento corretto ma insufficiente. La presunta neutralità morale della scienza pura non è più la soluzione del problema, ma è il problema stesso.

A nostro avviso la strategia di difesa dell'impresa scientifica dovrebbe arricchirsi di nuovi argomenti proprio per fare fronte a questo tipo di attacchi. La tesi della neutralità della scienza va messa in dubbio non solo perché è oggi poco efficace sul piano della comunicazione, ma anche perché non è del tutto vero che la scienza è amorale. E qui arriviamo al nocciolo del problema. Si sente spesso ripetere la parola "etica" in contrapposizione alla parola "scienza". Coloro che si oppongono alla diffusione delle nuove tecnologie, presentano la scienza come un mostro impazzito, un mostro al quale si può porre un argine soltanto grazie ad una non meglio specificata etica o morale. Da una parte c'è la scienza, che nel migliore dei casi è amorale (ovvero indifferente alle sorti dell'uomo) e nel peggiore dei casi addirittura immorale (in quanto asservita al potere politico ed economico). Dall'altra c'è invece la Morale con la M maiuscola. E poiché, nella realtà sociale, non esiste una sola morale, tali interventi risultano sempre piuttosto vaghi. Tuttavia, ciò che balza particolarmente agli occhi è il postulato di partenza dell'amoralità (se non della immoralità) della scienza.

L'idea dell'amoralità della scienza sembra accettata, anche se con valutazioni opposte, da entrambi i partiti in campo. E allora noi ci chiediamo da dove venga questa bizzarra idea. Diciamo "bizzarra", perché la scienza ha ed ha sempre avuto un proprio codice etico. Testimonianze di questo fatto esistono da almeno duemilacinquecento anni. Ne hanno parlato tutti i più noti filosofi, sociologi e scienziati del passato e del presente, e tra essi Aristotele, Platone, Cartesio, Bachelard, Popper, Merton, Monod, Bunge. Com'è possibile, dunque, che questo fatto sia completamente scomparso dall'orizzonte delle discussioni?

Le ragioni dell'attuale obliterazione, del non riconoscimento di tale ethos, sono certamente varie, ma c'è almeno un'ipotesi da tenere in particolare considerazione: questo codice è lontano dalla visione del mondo della gran parte degli uomini. I valori che la scienza considera fondanti - quando sono riconosciuti - sono spesso visti come secondari o come disvalori da altri gruppi umani. Non per caso il codice etico della scienza è entrato frequentemente in conflitto con le morali dominanti nella società. La pietra angolare di quest'etica è infatti l'imperativo di cercare la verità in modo disinteressato, ossia al di là dei benefici pratici personali o sociali che ne potrebbero conseguire. Questo imperativo è l'essenza stessa dello spirito dell'impresa scientifica. È evidente allora che chi accusa la scienza di amoralità non riesce a concepire la verità come un valore in sé, e tende ad anteporre ad essa altri valori (felicità, bontà, carità, bellezza, o altro ancora). Non vogliamo entrare nella questione su chi abbia ragione e chi torto in questa disputa assiologica, ma vogliamo mettere in chiaro che l'ostilità che periodicamente investe il lavoro degli scienziati deriva spesso dal non riconoscimento dei valori su cui la ricerca scientifica si fonda. Inoltre, deve essere chiaro che gli stessi scienziati tendono ad alimentare questa credenza quando affermano di essere neutrali sul piano etico.

Posto che la scienza riesca a cogliere la verità o almeno ad avvicinarsi progressivamente ad essa (ipotesi che noi accettiamo), resta il fatto che non esiste neutralità della scienza proprio perché la verità stessa è un valore. La sola scoperta della verità favorisce alcuni gruppi sociali a scapito di altri. Per analogia si pensi alle investigazioni poliziesche: la scoperta della verità riguardo a un furto favorisce il derubato e sfavorisce il ladro. In breve, la verità scientifica non è mai neutrale dal punto di vista delle dinamiche sociali, anche quando si indagano fatti naturali. Questo è vero al di là delle possibili applicazioni tecniche. La scienza pura ed i valori su cui tale impresa si sostiene hanno demolito interi sistemi etico-politici. Si pensi all'impatto sociale della teoria copernicana o dell'evoluzionismo.

3. Le norme etiche della scienza

Ma vediamo nel dettaglio queste regole etiche, così come sono state codificate da Robert K. Merton negli anni trenta e quaranta. [9] La norma del disinteresse ci impone di cercare la verità, quale essa sia, fidandoci solo dei sensi e della ragione e senza anteporle altri scopi. La norma dello scetticismo organizzato ci dice che non dobbiamo fidarci di alcuna affermazione che non sia sostenuta da ragioni o osservazioni. La norma del comunalismo ci impone di mettere in comune la nostra conoscenza, senza celare nulla di ciò che riteniamo vero e senza chiedere nulla in cambio (se non un riconoscimento formale). La norma dell'universalismo ci impone di non discriminare i prodotti scientifici sulla base delle caratteristiche personali dell'autore, ovvero razza, religione, sesso, preferenze sessuali, età, fama, potere, parentela, status sociale, ricchezza, ecc. Il rifiuto del principio di autorità si inquadra in quest'ultima norma. Queste norme hanno una natura tecnica, perché se non fossero rispettate non ci sarebbe scienza, ma hanno anche una dimensione morale perché debbono muovere la coscienza prima ancora che l'intelletto. Esse debbono innanzitutto essere credute giuste - e non tutti le credono tali. I nazisti squalificarono la teoria della relatività perché Einstein non era ariano. La loro etica era in contrasto con la norma dell'universalismo. Come del resto quella dei primi cristiani, che respinsero l'idea della rotondità della terra (della quale Eratostene aveva calcolato correttamente la circonferenza) perché la teoria era stata prodotta da pagani.

È vero che queste norme non sono sempre rispettate. Sappiamo che molti scienziati hanno intrapreso la carriera nella speranza di guadagni. Sappiamo che nelle università esiste il nepotismo. Tuttavia, esse sono sempre nell'orizzonte di pensiero di noi ricercatori e attive nella struttura delle istituzioni scientifiche, anche quando sono violate. Un re può passare la corona al figlio con atto d'imperio, un commerciante può passare il negozio al figlio con atto notarile, ma il figlio di uno scienziato per diventare tale dovrà sottoporsi come tutti gli altri ad una serie di prove (diploma, laurea, dottorato, pubblicazioni, concorso, ecc.). Potrà avere dei favoritismi, ma una cattedra non può essere trasmessa in eredità con atto legale. Perciò diciamo che le norme del disinteresse, dello scetticismo organizzato, del comunalismo, e dell'universalismo rappresentano il DNA morale dello scienziato.

Il codice etico della scienza potrà piacere o non piacere. Si potrà anche discutere sulla sua sufficienza o sulla necessità di integrarlo con altre norme provenienti dalla società più ampia. Ma una base etica ben definita esiste già, certamente a livello prescrittivo ed in misura statistica da verificare. Persino coloro che - come Barnes, Lyotard, Feyerabend ed altri pensatori postmoderni - hanno voluto mettere in luce l'aspetto mitico e ideologico dell'ethos della scienza, non sono arrivati a negarne l'esistenza. Hanno denunciato la crescente strumentalizzazione politica dell'impresa scientifica negli anni della guerra fredda, ma nel contempo hanno implicitamente o esplicitamente riconosciuto la possibilità e la realtà storica di un ethos della scienza.

4. Argomenti a sostegno della moralità dell'impresa scientifica

Che la verità sia un valore di tipo etico si può comprendere innanzitutto sulla base del senso comune, ovvero facendo riferimento all'atteggiamento generale della gente di fronte alla menzogna. Mentire, cioè nascondere o distorcere coscientemente la verità, è considerato dai più immorale. Nel linguaggio ordinario, la parola "bugiardo" è percepita come un offesa, non come un complimento. Non è dunque difficile comprendere che, per estensione, la ricerca della verità deve avere una base morale.

Che la scienza, intesa come impresa collettiva tesa alla scoperta della verità fine a se stessa, abbia qualcosa a che fare con gli assetti etico-politici di una società non è sfuggito a Boncinelli che nota: "La scienza produce un'accumulazione di conoscenza e si presenta come un'arena di discussione e di critica, senza steccati e autoritarismi. Rettamente intesa, rappresenta quindi una grande scuola di libertà e di democrazia. Non è un caso che quelle nazioni che mostrano una più diffusa mentalità scientifica siano proprio quelle dove la democrazia è più salda e di più antica tradizione". [10] Questa tesi era stata sostenuta anche da Merton, proprio per dimostrare che le norme metodologiche della scienza hanno una dimensione etica.

L'argomento può essere rafforzato da un esperimento mentale. La nostra società, come tutte quelle del passato, si regge sulla menzogna sistematica. Non si veda in questo un giudizio politico, dato che riguarda tutte le società storicamente esistite. È una semplice constatazione del fatto che l'uomo è un animale capace di mentire e tutta una serie di meccanismi sociali lo portano spesso ad usare questa facoltà. Basta vedere alcuni dati. I divorzi sono stimati in Italia intorno al 15%, mentre i coniugi adulteri intorno al 50%. È evidente allora che l'istituzione famiglia si regge in molti casi sulla menzogna. Il sistema politico lo stesso. Senza fare qualunquismo, è sotto gli occhi di tutti il fatto che non è possibile vincere le elezioni dicendo tutta la verità su ciò che si intende fare. Non c'è bisogno di scomodare Machiavelli per comprendere che un minimo di demagogia è sempre necessario, dato che l'elettorato non sceglie solo in base alla ragione, ma anche sull'onda dell'emozione. L'inganno è diffuso e accettato come regola del gioco nel mondo sportivo. Il dirigente che in tempo di calciomercato simula interesse per un calciatore al fine di soffiarne un altro alla squadra avversaria inganna lecitamente, così l'allenatore che fa pretattica sulla possibile formazione, e il tifoso non stigmatizza il calciatore della propria squadra che simula il fallo per ottenere un rigore. Ma la verità non è nemmeno la massima preoccupazione degli imprenditori, che simulano una buona prospettiva di guadagno per ottenere prestiti dalle banche, o una cattiva situazione finanziaria per non pagare gli straordinari ai dipendenti; né dei commercianti che dei prodotti dicono solo i pregi e non i difetti, né dei sindacalisti, degli operai e dei militari in guerra. Persino poliziotti e magistrati, che pure sono preposti alla ricerca della verità, possono ricorrere a menzogne e inganni per incastrare i malviventi. Come ha acutamente notato Trotsky: "L'operaio che non nasconde al capitalista la "verità" sulle intenzioni degli scioperanti è un puro e semplice traditore che non merita che disprezzo e boicottaggio. Il soldato che comunica la "verità" al nemico è punito come spia. Kerensky stesso tenta di accusare fraudolentemente i bolscevichi di avere comunicato la "verità" ai capi di Stato maggiore di Ludendorff. La "sacra verità" non sarebbe dunque un fine in sé? La dominano criteri imperativi, che, l'analisi lo dimostra, rivestono un carattere di classe… I proletari tedeschi non possono forse ingannare la polizia di Hitler?" [11]

Sulla menzogna si reggono anche le truffe e la ciarlataneria, che vedono in maghi e astrologi l'espressione più evidente. Più delicato il discorso sulle religioni, ma anche qui la logica ci dice che sono tantissime, sono diverse, e perciò non possono essere tutte vere. Anche ammettendo che una sia vera, resta il fatto che tutte le altre si debbono reggere necessariamente sulla menzogna e sull'inganno (o comunque, sul rifiuto di cercare la verità).

Proviamo allora a fare il nostro esperimento mentale e immaginiamo che la morale degli scienziati diventi un modello per tutti e tutti la facciano propria. Non saremmo di fronte alla rivoluzione più grande della storia dell'umanità? Non cambierebbe completamente il modo di vivere degli uomini? Io non so se la società cambierebbe in meglio o in peggio, ovvero se gli uomini sarebbero più o meno felici, ma certamente cambierebbe tutto. E questo avvalora l'ipotesi che la scienza pura non è neutrale sul piano della morale, ma porta con sé valori specifici.

Certo non si tratta di un'etica intesa come ricerca della felicità - alla maniera degli antichi - oppure di etica intesa come volere di Dio - alla maniera dei medievali - ma si tratta di etica kantiana, fondata sull'imperativo categorico. Kant proponeva un semplice "algoritmo" per riconoscere se un'azione è morale o no. Bisogna figurarsi la norma che ispira l'azione e chiedersi se vorremmo che diventasse legge universale. Se la risposta è positiva, allora la nostra azione è morale. Spieghiamo in termini più semplici. Il ladro che sta per commettere un furto potrebbe chiedersi: "vorrei io che il furto diventasse legge universale, ovvero che tutti rubassero invece di lavorare?". È evidente che la risposta sarebbe negativa. Se tutti rubassero e nessuno producesse, non ci sarebbe nulla da rubare. Perciò il furto è immorale.

Lo scienziato, dal canto suo, può kantianamente chiedersi: "Vorrei io che la ricerca disinteressata della verità diventasse legge universale, ovvero che tutti si rappresentassero la realtà naturale e sociale usando la ragione e i sensi e abbandonassero i propri pregiudizi?". La risposta - almeno dal mio punto di vista soggettivo - è positiva. Ecco perché la scienza è morale.

Anche Monod si è accorto che il metodo scientifico si regge su un codice morale, che lui chiama etica della conoscenza. E anche nel vocabolario di Monod l'etica della conoscenza è un imperativo categorico che chiede all'uomo di cercare la verità per se stessa, al di là dei vantaggi che se ne possono conseguire. Si tratta dunque di una norma morale austera, che richiede duri sacrifici. Secondo il biologo è questa la norma etica che sta a fondamento dell'impresa scientifica: lo scienziato autentico sacrifica tutto alla verità, quale essa sia. Detto in termini filosofici, esiste un'assiologia della scienza che pone il valore della verità al di sopra di ogni altro valore, sia esso la felicità, l'utilità, la giustizia, la bellezza o altro ancora. Questi possono ancora essere riconosciuti come valori, ma occupano necessariamente  posizioni gerarchiche inferiori nell'assiologia della conoscenza scientifica.
Secondo Monod, solo alcuni uomini riescono ad accettare l'austera etica della conoscenza. La scienza si è potuta affermare come forza sociale fondamentale, anche se il suo spirito non è patrimonio comune, grazie alla tecnologia. Gli scienziati, per farsi accettare, hanno dato tecnologia agli altri uomini piuttosto che cercare di convincerli che il mondo naturale e sociale può essere letto in maniera diversa. È una scorciatoia che porta con sé molte insidie, perché la tecnica è un'arma a doppio taglio. Molti uomini, pur non comprendendone e non condividendone lo spirito, hanno utilizzato la scienza per ottenere potere o denaro. Uomini dalla mentalità primitiva hanno usato uno strumento spiritualmente elevato senza farlo proprio fino in fondo. Questo processo ha portato ad una crescita della scienza, senza che il suo spirito riuscisse a radicarsi nell'uomo. Di qui la crisi - secondo Monod - dell'uomo moderno, che vive in una società scientificamente e tecnologicamente avanzata, ma in cuor proprio non capisce o respinge la scienza. La odia perché essa distrugge sistematicamente i miti, le favole alle quali l'uomo tende ad affidarsi per superare l'angoscia generata dalla propria condizione esistenziale.

L'umanità, secondo Monod, è ora di fronte a un bivio: o gli uomini entrano nello spirito della scienza (ovvero cercano la verità per se stessa al di là delle applicazioni) e allora si ristabilisce un equilibrio, un armonia, una consonanza, tra struttura sociale e cultura, oppure si va verso il collasso, la catastrofe. Evidentemente, Monod, scrivendo negli anni settanta, stava pensando al pericolo del conflitto nucleare e alla possibile estinzione della specie.

L'idea più interessante della prospettiva di Monod è tuttavia la spiegazione, ovvero il perché dell'esistenza dell'etica della conoscenza. Secondo lui, ci deve essere un'origine genetica tanto dell'etica della scienza quanto del suo sistematico rifiuto da parte degli uomini. Partiamo da un dato: l'uomo moderno non è biologicamente dissimile dai cacciatori raccoglitori del paleolitico superiore. L'uomo di Cro-Magnon, per intenderci, aveva un patrimonio genetico paragonabile al nostro. La differenza tra noi e loro è soltanto nel patrimonio culturale. Monod si chiede allora: è mai possibile che ci siano voluti centomila anni per riconoscere che: A) conoscere la Natura è un valore in sé; B) la Natura ha un carattere oggettivo; C) per conoscerla non c'è metodo migliore che confrontare sistematicamente logica ed esperienza? Sono le tre idee fondamentali che stanno alla base dell'impresa scientifica e che, soprattutto negli ultimi quattro secoli, hanno cambiato il mondo e aperto le porte a conoscenze prima inimmaginabili. Com'è possibile, si chiede Monod, che una civiltà avanzata come quella cinese non sia mai stata sfiorata da queste idee? Idee che, tra parentesi, non hanno trovato spazio nemmeno nella grande civiltà dei Sumeri e in numerose altre. E com'è possibile che anche in Occidente, dopo Talete e Pitagora, ci siano voluti 2500 anni affinché queste idee diventassero rispettabili? E come è possibile - aggiungiamo noi - che ancora oggi tanti europei e americani le mettono ancora in discussione e rifiutano di accettarle?

Secondo il biologo la spiegazione deve essere nei geni. Prendiamo in considerazione il classico tema filosofico della condizione umana. Siamo esseri coscienti in un mondo che ci è ostile, nel senso che non è assolutamente plastico alla nostra volontà e ai nostri desideri. Oltretutto, non sappiamo perché siamo qui, dove la parola "perché" può essere interpretata tanto in senso causale (per quale causa) quanto in senso teleologico (per quale fine). Le uniche certezze che abbiamo sono l'invecchiamento e  la morte. La condizione umana genera angoscia. L'angoscia di fronte ai misteri dell'esistenza è fatto precipuamente umano. E, se è fatto precipuamente umano, deve avere qualche radice biologica. Utilizzando la terminologia di Monod, ci deve essere un legame tra l'evoluzione delle idee e l'evoluzione della biosfera.

Monod nota giustamente che "l'angoscia creatrice [è all'origine] di tutti i miti, di tutte le religioni, di tutte le filosofie e della scienza stessa". [12] Questo è stato notato da molti altri pensatori, ma Il caso e la necessità ci spiega anche perché, storicamente, i miti e le religioni hanno prevalso sulla filosofia e sulla scienza. Detto in altri termini, l'etica della coesione ha prevalso per centomila anni sull'etica della conoscenza e questo fatto ha un perché. Potremmo anche dire che ha prevalso per almeno tre milioni di anni, se consideriamo umani, come in effetti dovremmo, anche l'Homo habilis, l'Homo erectus e Homo sapiens neanderthaliensis.

Per centinaia di migliaia di anni, il destino di un singolo essere umano si confuse con quello del suo gruppo, della sua tribù, al di fuori della quale gli era impossibile sopravvivere. La tribù, d'altra parte, poteva sopravvivere solamente grazie alla sua coesione. (…) Da qui l'estrema forza soggettiva delle leggi che organizzavano e assicuravano tale coesione. Talvolta un individuo poteva infrangerle ma nessuno, probabilmente, avrebbe mai pensato di negarle.

Data l'enorme importanza selettiva, inevitabilmente assunta da simili strutture sociali e per un così lungo periodo di tempo, è difficile non pensare che esse abbiano influito sull'evoluzione genetica delle categorie innate del cervello umano. Quest'evoluzione non solo doveva agevolare l'accettazione della legge tribale, ma creare anche il bisogno della spiegazione mitica che ne è il fondamento e che le conferisce la sovranità. Noi siamo i discendenti di questi uomini. È da loro che abbiamo ereditato probabilmente l'esigenza di una spiegazione, l'angoscia che ci costringe a cercare il significato dell'esistenza…

Dal canto mio non dubito affatto che quest'imperiosa necessità sia innata, che sia inscritta da qualche parte nel linguaggio del codice genetico, che si sviluppi spontaneamente. [13]

La coesione del gruppo acquista particolare importanza perché l'uomo è l'unico animale che uccide sistematicamente i propri simili. La tribù sopravvive se è coesa e non può essere coesa se qualcuno solleva continuamente dubbi su tutte le credenze che regolano la vita della tribù, pretende discussioni aperte, prove razionali ed empiriche, e soprattutto di non discriminare gli appartenenti ad altre tribù. Tutto questo in nome della verità. È plausibile che tali individui, se mai sono comparsi nel corso dei milioni di anni in cui l'uomo si è evoluto, siano stati eliminati o ridotti al silenzio. Probabilmente ci sono stati molti più Giordano Bruno di quanti possiamo immaginare. Chi sviluppava i geni dello scienziato riusciva difficilmente a trasmetterli e questo spiegherebbe il fatto che ci sia voluto così tanto tempo affinché la scienza potesse affermarsi. Questa è un'ipotesi suggestiva, ma resta una ipotesi tutta da dimostrare. L'ultima parola su questa idea la dirà forse la ricerca nel campo della genetica, che sta facendo grandi progressi.

5. Nota conclusiva

Il messaggio principale di questo breve saggio è che la scienza non solo non è amorale o immorale, ma costituisce anzi un'importante modello etico. Per questa ragione, al politico che vorrebbe regolare la scienza con l'etica della politica si dovrebbe rispondere che, sì, siamo aperti ad allargare la nostra prospettiva e ad integrare la nostra etica con altre norme, a patto che il mondo della politica si impegni a fare proprie alcune delle nostre regole. Al religioso che vorrebbe regolare l'attività scientifica con la morale cristiana, musulmana o induista, si dovrebbe rispondere che senz'altro alcune limitazioni possono essere introdotte in rispetto a queste tradizioni, ma a patto che le Chiese introducano nelle loro dottrine qualche regola dell'etica della conoscenza. All'uomo comune che chiede allo scienziato di tenere conto del senso comune, si dovrebbe rispondere che certamente la saggezza popolare può insegnare qualcosa e non va ignorata, ma l'uomo comune dovrebbe dare qualcosa in cambio, impegnandosi a vivere la propria realtà quotidiana nello spirito dell'etica della scienza.

In definitiva, invece di cospargerci il capo di cenere oppure di ritirarci in una torre d'avorio di fronte agli attacchi concentrici di politici, religiosi e cittadini, cerchiamo di fare loro capire che la scienza è anche un modo di intendere la vita. Fare propri i valori della scienza - ovvero disinteresse, scetticismo organizzato, comunalismo e universalismo - significa introdurre nella vita sociale più sincerità, meno ingenuità, più generosità, meno xenofobia. Non mi pare cosa da poco.

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[1]  Ci riferiamo qui alle cosiddette "science wars" (un espressione inglese che possiamo tradurre con "guerre di scienza"), combattute a forza di parole, e non di armi come le guerre di religione, ma non per questo meno aspre. Nel campo razionalista o pro-scienza spiccano le figure di Merton, Popper e Bunge. Nel campo postmoderno o antiscienza vanno certamente annoverati Feyerabend, Bloor, Latour, ed i loro seguaci.
[2]  Vedi l'articolo di Gianni Vattimo: "Il mistero non risolto", apparso sul La Stampa del 5 gennaio 2004.
[3]  Cfr. Paolo Budinich, "Il progresso della Scienza e la scienza del Progresso", La Biblioteca dei 500 (http://ulisse.sissa.it/bibWorkArea.jsp).
[4]  "La tecnica era ben presente anche in epoche nelle quali non si intravedeva neppure il sorgere di una scienza ed è presente in popolazioni che non hanno mai sviluppato una scienza sperimentale come la concepiamo noi". Cfr. Edoardo Boncinelli, "Progresso possibile e progresso impossibile", La Biblioteca dei 500 (http://ulisse.sissa.it/bibWorkArea.jsp).
[5]  Su questo tema si veda in particolare E. J. Dijkterhuis, Il meccanicismo e l'immagine del mondo dai presocratici a Newton, Milano 1980.
[6]  Non entriamo nel dettaglio degli argomenti epistemologici e sociologici utilizzati perché ci porterebbe troppo lontano. Il lettore può farsi un'idea di questo approccio leggendo I. Lakatos e P. Feyerabend, Sull'orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Cortina, Milano, 1995.
[7]  O, con una formula coniata da Feyerabend e ormai passata alla storia: "Anything goes" (tutto va bene).
[8]  In una lettera a Lakatos, Feyerabend ha ammesso che certe prospettive di guadagno lo hanno spinto ad inasprire la sua battaglia contro la scienza e in difesa della stregoneria. Cfr. Sull'orlo della scienza, op. cit. La prova che nemmeno lui credesse nelle pseudoscienze è nel fatto che quando si è ammalato di cancro ha affidato la propria speranza di sopravvivenza ai migliori specialisti di oncologia e non a stregoni o maghi. Purtroppo molti dei suoi studenti senza senso dell'umorismo hanno trattato come dogmi le sue "sparate" dadaiste.
[9]  Cfr. "La struttura normativa della scienza" di Robert K. Merton, in La sociologia della scienza: indagini teoriche ed empiriche a cura di Norman W. Storer, Franco Angeli Editore, Milano 1981, pag. 357.
[10]  Boncinelli, op. cit., pag. 4.
[11]  Leon Trotsky, Letteratura, arte, libertà (a cura di Livio Maitan), Swarz, Milano 1958, 162.
[12]  Cfr. Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1971, pagg. 138-142.
[13]  Ibid.



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