Antonio Caronia - Il Corpo Virtuale

Recensione di David Debiasi

Originariamente pubblicato su Beyond Human

ABSTRACT: Cosa è che sentiamo di più immediato e naturale del nostro corpo? Lo consideriamo come la nostra più palpabile garanzia di identità e il legame più diretto con la natura, ma nel passaggio dalla società industriale, elettromeccanica a quella postindustriale, elettronico-informatica, la percezione del corpo e dell'io si trasforma, costringendo a una nuova antropologia che vede sullo sfondo il post-umano. Nel libro di Antonio Caronia che abbiamo recensito, Il Corpo Virtuale, si discute proprio di questa metamorfosi spaziando dall’immaginario fantascientifico alla rivoluzione elettronica e digitale, per riflettere sulla nuova epoca che si è aperta con l’impatto profondo della tecnologia sul corpo umano, non privo di conseguenze radicali anche per la nostra cultura.

Il corpo umano non ha subito che lievi modifiche rimanendo sostanzialmente lo stesso dai tempi dell’Homo Sapiens. La sua evoluzione biologica sembra aver raggiunto uno stadio di adattamento soddisfacente in rapporto all’ambiente naturale. Accadde però che da quando la Natura smise di plasmare il corpo dell’uomo, questo suo “animale speciale” dotato di ragione, linguaggio, memoria si sia costruito un altro tipo di ambiente che però stavolta costruisce da sé: quello tecnico e culturale. Arnold Gehlen, filosofo e antropologo, parlò dell’uomo, nato all’inizio nudo e fragile, come “essere incompiuto” che costruisce con la tecnica e la cultura un “mondo virtuale” e una “seconda natura” per colmare le sue inadeguatezze nel mondo naturale in cui gli altri animali con i loro istinti specializzati riescono a batterlo nella sopravvivenza. Creando un suo ambiente artificiale e trascendendo quello naturale per necessità l’uomo riesce invece non solo a sopravvivere ma anche a potenziare sue determinate facoltà:

“L’uomo è organicamente l’essere manchevole; egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, resa maneggevole, trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura. Si può anche dire che è costretto biologicamente al dominio sulla natura” [A. Gehlen, L’uomo nell’età della tecnica]

Con altre parole possiamo dire che la sua vita dipende dalla costruzione che egli ne fa in quanto costruendo un mondo egli costruisce se stesso. L’insufficienza biologica dell’uomo viene quindi colmata dal suo sviluppo culturale che si intreccia con quello tecnologico, vivere il mondo per l’uomo non significa solo adattarsi (come è per l’animale) ma trasformare l’ambiente naturale in cui vive. Nel corso della storia umana nascono così simboli, miti, religioni, scienze, filosofie, arti e tutto ciò che solitamente comprendiamo nella dimensione culturale, tramite essa l’uomo si distingue qualitativamente rispetto agli altri animali. Fin qui non ci sorprendiamo più di tanto. Siamo consapevoli, chi più e chi meno, dell’importanza della cultura e della tecnologia nella vita umana. Se la cultura permette agli esseri umani di creare un complesso sistema di simboli, credenze, conoscenze, morali, ecc… da condividere con i propri simili, la tecnologia scaturita da essa gli consente fisicamente di mutare il mondo attorno. Ma la rapidità e la profondità delle modificazioni indotte dalla tecnologia negli ultimi tempi sono senza precedenti: meccanizzazione e automazione hanno esonerato l’uomo da svariati lavori faticosi e aumentato la produzione di beni, l’informatica e la telematica stanno cambiando il mondo nel campo della comunicazione e della vita quotidiana. E questo solo per fare due esempi. Da qualche tempo ormai la tecnologia sta avendo un impatto enorme sull’ambiente, sulla società e sull’individuo influenzando profondamente anche la cultura stessa.

Ritornando a quello che dicevamo all’inizio e cioè del corpo umano rimasto più o meno lo stesso da quando sulla terra cammina la specie dell’Homo Sapiens, può sembrare che l’uomo sia ormai un’entità biologicamente “stabilizzata”. Ma è davvero così? Possiamo dirci esseri umani compiuti e definiti una volta per tutte? E non sarà che l’immagine del nostro corpo “immutabile” sia più qualcosa di culturale che di naturale?

Il Corpo Virtuale, scritto da Antonio Caronia e pubblicato nel 1996, studioso dell’immaginario tecnologico e delle nuove tecnologie della comunicazione, ci fa scoprire che no, non possiamo dirci così naturalmente dati una volta per tutte. Anche perché il corpo che nell’era della scienza il senso comune identifica con un’entità biologica è invece soprattutto una costruzione culturale su cui sono stati intessuti segni e simboli (ma aggiungiamo noi anche presunti “limiti” inoltrepassabili). E mai come nella nostra epoca tecnologica la natura umana è apparsa un progetto e una questione aperta. La tecnologia che era esplosa dall’uomo per modificare l’ambiente esterno ora sta implodendo nell’uomo stesso, la tecnologizzazione del corpo sta rimettendo in discussione confini sacri, la nostra stessa identità sembra vacillare e si scopre mutante mentre la credenza in una definitiva forma corporea umana (non importa se disegnata da dio o dall’evoluzione naturale) sta tramontando.

Le tecnologie insomma mettono in discussione quello che Caronia definisce come “lo strumento primario del nostro rapporto col mondo” e che sta a fondamento del nostro senso di identità: il nostro corpo. Con l’avvento della rivoluzione industriale e poi di quella elettronico-digitale ci confrontiamo con entità artificiali create e animate da noi, con l’ibridazione tra l’organico e il non-organico, e con la disseminazione del nostro corpo nella rete. Rendendo gli scenari della fantascienza molto più reali di quanto si potesse pensare fino a qualche tempo fa. Combinando l'immaginario narrativo alla realtà della tecnologia contemporanea, l’autore ci conduce in un viaggio diverso dal solito facendoci scoprire che le fantasie più inquietanti e più audaci dell’età moderna sull’uomo stanno materializzandosi nel nostro tempo trasformando innanzitutto il modo di vedere il nostro corpo, tanto da chiedersi se “la disseminazione dei simulacri corporei (e perciò del corpo stesso) nelle reti telematiche ci autorizza a chiamarci ancora uomini” e se “non stiamo già davvero entrando nell’era del postumano”.

Quali pratiche nascono allora intorno al corpo, come si modifica nell’immaginario sociale e quali nuovi rapporti si creano intorno all’ormai sottile confine tra naturale e artificiale? Caronia esplora tali questioni tramite tre linee di tendenza contemporanee: il corpo replicato, il corpo invaso e il corpo disseminato.

Il corpo replicato

Con la nascita della società industriale ritorna con una diversa valenza una figura che popolava il mito e il folklore da millenni: quella dell’uomo artificiale, dapprima con l’homunculus alchemico poi con il golem per arrivare al robot, diventa il simbolo della fiducia prometeica nelle possibilità della scienza e dell’industria ma dall’altra parte tale figura viene temuta come “l’Altro” che minaccia e sostituisce l’uomo fino ad annullarlo, è il terrore che nasce dinanzi all’alterità.

L’uomo artificiale incarnerà la figura che simboleggia l’hybris dell’uomo, come nel Frankenstein di Mary Shelley, e la sua pretesa di strappare i segreti della natura. Ma in quanto figura speculare incarna anche “il doppio”, ciò che non è completamente familiare ma in qualche modo ci somiglia, l’inquietante presenza che riproduce e replica il corpo umano seppur in termini artificiali.

Le macchine simboleggeranno nei sogni e negli incubi di molti scrittori quel “sapere=potere” tecnico-scientifico mai sazio di violare i sacri confini stabiliti dalla Natura o da Dio. L’automa “assume su di sé tutto il carico di tragico destino che spetta a un essere ambiguo e ingannatore: un essere che inganna lo sguardo nella più segreta delle dimensioni, perché imita l’aspetto esteriore della vita e dell’intelligenza senza essere né vivo né intelligente”.

Da qui la fantascienza successivamente si sbizzarrisce nell’immaginare robot, androidi, cyborg, replicanti quasi sempre però visti nella loro tragicità e mezzi per una critica alla società industriale che celebrava allora i suoi fasti tecnologici e una critica alla vita dell’uomo industriale diventato in tale contesto come appunto un semplice “automa”. Oppure vedendovi l’antico sogno dell’uomo nell’immortalità che però può realizzarsi solo al prezzo di perdere la sua umanità.

I “robot”, ad esempio nel romanzo R.U.R. dello scrittore boemo K. Capek, a cui si deve la nascita di tale parola, oltre a inquadrarsi nella classica allegoria della creatura che si ribella contro il suo creatore, portano con sé anche l’allegoria della massa degli schiavi che si ribella contro il loro padrone, facendo così acquisire al romanzo anche un nuovo significato di critica sociale oltrechè di critica alla civiltà industriale. Ma solo con Asimov la figura del robot non viene più vista come ribelle, pericolosa e priva di umanità, lo scrittore americano di origine russa, nei suoi racconti, a iniziare da I Robot, mette in crisi l’idea dell’intelligenza come esclusiva facoltà dell’uomo: anche i robot possono ragionare e pensare ma questa loro capacità è messa al servizio degli uomini per aiutarli, sempre all’interno di quelle famose tre leggi della robotica che l’uomo ha immesso nei loro “cervelli positronici”. Asimov immagina quindi più un futuro di integrazione e conciliazione tra umani e robot che non di puro conflitto. Tuttavia l’androide rimane una figura inquietante in quanto fa emergere la repulsione per l’essere che somiglia all’uomo in un modo tale che inganna lo sguardo, allora affiora il sospetto di quanto l’altro sia veramente umano o no, a questo punto entriamo in crisi perchè: “come faccio a sapere che gli altri uomini sono uomini come me, che pensano e sentono come me, e non invece macchine che simulano un comportamento umano?”.

Questa stessa domanda la ritroviamo, seppur in diversa forma, sia nell’esperimento mentale di Turing sia nei racconti di P.K.Dick. Quando una macchina può dirsi pensante? È questo difficile quesito che sorse nel padre teorico della scienza dei calcolatori Alan Turing. Per stabilire un criterio che indicasse quando una macchina “pensa” ideò il suo famoso test: dietro un muro divisorio, due entità incognite rispondono a un interrogante, se quest’ultimo non riesce a distinguere le risposte dell’essere umano da quelle della macchina allora si potrà ragionevolmente dire che quell’entità artificiale “pensa”. Questo esperimento sollevò molti entusiasmi (da parte innanzitutto dei ricercatori nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale o IA) ma anche molte critiche come quella ad es. del filosofo John Searle che criticò il test mentale dello scienziato in quanto prova solo che le macchine sanno manipolare simboli e sanno ricevere istruzioni, ma non prova affatto che posseggano alcuno stato intenzionale (la qualità più profonda di un essere umano). E i continui insuccessi nel campo dell’IA sembrano confermare finora le critiche di Searle.

Tuttavia, ci dice Caronia, le obiezioni al test di Turing non possono “eliminare dall’immaginario la presenza delle menti artificiali, dei corpi artificiali, degli esseri artificiali, e tutti gli interrogativi radicali che essa pone all’uomo sulla sua stessa evoluzione e la sua stessa natura”. Chi forse ha esplorato meglio tali interrogativi è stato lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick che ha avuto nei suoi racconti e romanzi uno sguardo insieme ironico e drammatico sul rapporto tra uomo e macchina. L’artificiale ha tendenzialmente un ruolo negativo in Dick, in quanto rappresenta la manipolazione della realtà ad opera del potere, lo si vede in alcuni suoi personaggi che si scoprono non uomini ma robot senza mai averlo saputo, e iniziano così a lottare per riconquistare la loro libertà perduta attraverso l’atto più radicale: la loro morte. In uno dei più significativi romanzi di Dick, il celeberrimo Do Androids Dream of Electric Sheep? da cui è stato tratto il famoso film Blade Runner, ritroviamo il discorso sull’artificiale: una nuova generazione di androidi che ha superato l’intelligenza degli esseri umani, si ribella nella loro colonia spaziale e arriva sulla Terra, il poliziotto Rick Deckart viene incaricato di individuarli e distruggerli. Ma gli androidi sono a prima vista indistinguibili dagli esseri umani, per riconoscerli è necessario il test Voigt-Kampff che misura il grado di empatia degli androidi della quale sono privi, e quindi risultano nella visione dickiana esseri senza umanità, indifferenti alla sofferenza e manipolatori della realtà. Anche se il significato del libro è ambiguo la figura dell’androide rimane sostanzialmente contrapposta a quella umana, ma per Dick è la realtà stessa a sembrare artificiale e contraffatta e senza verità ultima. Come fa notare Caronia la domanda alla base di questo romanzo si può riformulare in questo modo: “cos’è veramente l’uomo e cosa lo distingue dagli androidi?”.

L’artificiale rappresenta quindi quel “doppio” che ci inquieta perché nasconde una profonda divaricazione tra apparenza ed essenza, riflettendo la nuova condizione del corpo artificiale nell’era industriale, meccanizzata e massificante: “la replica artificiale del corpo umano incarna infatti, da un lato, l’aspettativa che le forze produttive crescano in modo talmente smisurato da permettere all’uomo di creare il prodotto definitivo, cioè se stesso; ma dall’altro segnalano la paura che il corpo si meccanizzi, che l’uomo divenga uguale alle proprie creazioni”. Ma nell’epoca della tecnica si svolge contemporaneamente a questo percorso che vede della vita replicata artificialmente, anche un altro percorso che vede una invasione del corpo umano stesso, nasce così la figura dell’ibrido, del cyborg.

Il corpo invaso

Mettendo in crisi quella demarcazione tra naturale e artificiale la tecnica, abbiamo visto, interviene a ristrutturare l’individuo e il suo corpo. Da questa azione metamorfica e simbiotica della tecnologia sul corpo umano che viene così invaso e colonizzato, fuoriesce quell’ibrido che noi chiamiamo cyborg.

Come ci ricorda l’autore, “il termine cyborg non era nato sulle pagine di un libro di fantascienza, ma negli ambienti della ricerca scientifica che orbitava intorno alla NASA. Negli anni cinquanta l’ente spaziale americano aveva preso davvero in considerazione l’ipotesi di modificare chirurgicamente gli esseri umani, sostituendo parti del corpo e inserendo organi artificiali, per renderli adatti all’esplorazione di altri pianeti senza far loro indossare ingombranti tute… così, nel 1960, due medici del Rockland State Hospital di New York, Mainfred Clynes e Nathan Kline, avevano parlato di cybernetic organism”. Ma se gli esseri viventi vengono modellati da tecnologie sempre più intelligenti e interattive, se le macchine si umanizzano e i corpi si riempiono di protesi e microchips, nasce in noi la sconvolgente domanda se al termine di questa trasformazione potremo ancora chiamarci “umani”.

In questa nuova condizione che vede la nostra carne ospitare o comunque entrare in stretto contatto con manufatti artificiali prendono ispirazione vari scrittori di fantascienza ma è solo negli anni ottanta che un gruppo di scrittori etichettati come cyberpunk scuote il mondo dell’immaginario fantascientifico con le sue originali visioni di uomini ibridati con la tecnologia. Grazie soprattutto a due libri, Neuromante di W. Gibson e l’antologia Mirrorshades curata da Bruce Sterling, questo movimento underground si caratterizza da una narrativa che sa esprimere potentemente la nuova fase postindustriale e postmoderna in cui la “nuova carne” entra progressivamente in scena nell’immaginario tecnologico. La narrativa cyberpunk insiste sul tema della nuova frontiera del cyberspazio e della realtà virtuale ma non trascurato è anche il tema dell’invasione del corpo a opera della tecnologia. Non è raro infatti trovare nei romanzi e racconti di questi scrittori la figura del cyborg che essi rivoluzionano, infatti fino ad allora tale figura era perloppiù evocata a proposito di un rapporto conflittuale tra uomo e tecnologia, divenendo una figura non meno “maledetta” dei robot. Non più “essere mostruoso” il cyborg assurge, nella narrativa cyberpunk, a nuovo statuto del corpo nella società dell'informazione.

Su questa linea della tecnologizzazione del corpo si muove anche diversi artisti nell’ambito della body art. Tra questi sicuramente uno dei più originali e dirompenti è “l’artista-cyborg” australiano Stelarc che basa la sua arte proprio sulla modificazione e il potenziamento del corpo: nelle sue incredibili performances si avvale di protesi, estensioni meccaniche, esoscheletri e realtà virtuale per esplorare la dimensione del corpo in tutta la sua globalità. Convinto che il corpo umano così come lo abbiamo ereditato dalla natura è nell’era tecnologica ormai obsoleto, e che “l’era dell’informazione sta introducendo l’uomo a un processo di evoluzione ‘post-darwiniana’ in cui non sono più all’opera i classici meccanismi biologici della selezione naturale, ma nuove strategie di riprogettazione dell’individuo” (redesigning the body), ecco cosa afferma questo singolare artista: ”Non ha più senso considerare il corpo come un luogo della psiche o del sociale, ma piuttosto una struttura da controllare e da modificare. Il corpo non come soggetto ma come oggetto, e non come oggetto di desiderio ma come oggetto di riprogettazione. Il periodo psico-sociale è stato caratterizzato da un corpo che girava intorno a se stesso, che orbitava intorno a sé illuminando ed esaminandosi attraverso stimoli fisici e contemplazione metafisica. Ma trovandosi di fronte alla sua immagine di obsolescenza il corpo è traumatizzato dall’idea di separarsi dal regno della soggettività, e di prendere in considerazione la necessità di riesaminare e possibilmente di ridisegnare la propria struttura. Modificare l’architettura del corpo significa adeguare ed estendere la sua consapevolezza del mondo. Come oggetto, il corpo può essere amplificato e accelerato fino alla velocità di fuga planetaria. Diventa un missile post-evolutivo, abbandonando e diversificando la sua forma e le proprie funzioni”.

Cade quindi il vecchio dualismo anima-corpo e quel fantasma che era il “soggetto”, con Stelarc si affronta in pieno la nuova condizione umana nell’era dell’informazione: “Io non propongo un modello utopico di corpo perfetto, io non voglio che gli individui siano costretti a riprogettare il proprio corpo”, dichiarò in un’intervista “sto solo esplorando delle vie attraverso le quali chi lo vuole può farlo. E potrebbe volerlo fare perché il corpo è diventato sempre più obsoleto nell’ambiente ad alta intensità di informazione che l’uomo stesso ha creato. Nessuno può sperare di assorbire e processare in modo creativo tutta questa informazione. La tecnologia, con tutte queste macchine che sono più precise e potenti del corpo, lo ha accelerato: il corpo vive ormai in condizioni di gravità zero, o di velocità di fuga da un pianeta. Per questo ritengo che sia biologicamente inadeguato. L’approccio ergonomico non ha più senso. Non si può continuare a progettare una tecnologia per il corpo quando la tecnologia usurpa e surclassa il corpo in continuazione. E’ ora invece di adeguare il corpo alla macchina, di dargli un’accelerata. Nella connessione alle reti cyber, per esempio, siamo ancora limitati dalle tastiere, e altri dispositivi del genere. Il collegamento diretto al cervello non è solo una fantasia fantascientifica, è già un’esigenza reale”. In queste affermazioni che possono sembrare estreme Stelarc sta cercando intelligentemente di sbarazzarsi dei tabù sull’originarietà, sull’intangibilità e sulla sacralità del corpo naturale, avventurandosi nei territori, ancora poco conosciuti, del postumano.

Il corpo disseminato

Un inquietante interrogativo però ora ci tormenta: se protesi, innesti, chips, penetrano il corpo naturale dove si collocano i confini del nostro nuovo corpo di “carne e silicio”? Nella parte che noi chiamiamo naturale o in quella artificiale? Tale domanda è un’occasione forse per prendere coscienza che in realtà i confini del nostro corpo sono solo qualcosa delimitato perloppiù dalla nostra cultura più che essere confini stabiliti dalla “natura”. Quali sono allora i limiti del nostro corpo? Si potrebbe rispondere la pelle, ma allora la nostra voce? Essa forse non è una nostra “estensione”? Anche l’abbigliamento si può dire amplia il nostro io corporeo. E che dire delle simulazioni digitali? Esse sono in fondo dei mondi immersivi e interattivi in cui noi ci muoviamo tramite il nostro nuovo “corpo virtuale e disincarnato”. Anche qui se vediamo bene è la convenzionalità culturale che stabilisce confini. I nostri limiti sono quelli che noi vogliamo vedere.

Le tecnologie digitali in particolare allargano gli spazi di libertà dell’uomo e permettono di “mettere in comunicazione a distanza non solo la voce, ma altre funzioni fisico-comunicative di due o più persone, tutto ciò sembra andare in direzione contraria a quella in cui portava il cyborg. Se il contatto sempre più intimo del corpo con le tecnologie elettromeccaniche intrusive ci fa pensare a un cambiamento della stessa ‘materia prima’ biologica del corpo, ma non certo a un deperimento della sua dimensione materiale, le tecnologie digitali sembrano andare invece verso un’evanescenza del corpo, verso una tendenziale scomparsa nella nuova immaterialità delle interazioni elettroniche”. Ai processi di replica del corpo e di invasione del corpo si affianca così anche quello di disseminazione del corpo che in questa ultima forma minaccia e stravolge un rapporto fondamentale, quello tra corpo e identità.

L’esperienza del corpo disseminato nasce con le tecnologie telematiche e virtuali: la telefonia è la “prima forma del ciberspazio” in quanto noi sperimentiamo uno spazio virtuale in cui possiamo interagire seppure solo tramite la voce. Nelle realtà virtuali (RV) invece l’esperienza del nostro corpo “de-materializzato”, “dis-locato” e "frammentato" diventa evidente: “il corpo abbandona la sua dimensione organica e permanente, presentandosi piuttosto come qualcosa di transitorio”, diventando quindi un simulacro virtuale di cui ci avvaliamo per interagire nell’ambiente digitale. Ma la realtà virtuale non è da intendere come spazio neutro bensì come spazio partecipativo in cui ognuno di noi diventa un “demiurgo”, in questi mondi paralleli si riduce drasticamente quello iato tra le cose e noi, in quanto non si può separare l’osservatore, il soggetto, dall’osservato, l’oggetto, la RV infatti rompe lo schermo e nel suo ambiente immersivo ci incoraggia a una fruizione attiva. Sembra che le tecnologie digitali dissolvano la tradizionale dicotomia tra realtà e rappresentazione, o nietzschianamente tra "mondo vero" e "mondo apparente": “la scoperta novecentesca della precarietà del reale, del carattere sfuggente della realtà, della sua ingovernabilità da parte dello sguardo razionale dell’uomo, non poteva sfociare nella presenza di un’altra dimensione, quella appunto della ‘disponibilità’, che si realizza dapprima nelle costruzioni dell’immaginario, dalla letteratura al cinema… poi, in tempi più vicini a noi, in questa nuova dimensione intermedia, resa possibile dalle tecnologie elettroniche, che dissolve ogni opposizione tra naturale e artificiale, fra realtà e rappresentazione. Questa dimensione inizia con la televisione ma comincia a realizzarsi più compiutamente con le tecnologie digitali”. In tale contesto il corpo disseminato è un “corpo fluttuante” che perde la sua sacralità, la sua “origine immutabile e fondativa” e che “non è più adatto a sostenere un’identità forte e stabile”.

“Paradossalmente” dice l’autore “solo la fine della credenza in un’origine di unità e armonia con la natura rende possibile che il nuovo corpo artificiale e disseminato funzioni come strumento di contatto e di inserimento nel nuovo paesaggio tecnologico, nella nuova dimensione del mondo, in cui naturale e artificiale si confondono”. A questo processo e a questo nuovo livello di realtà che chiamiamo “ciberspazio” sarà inutile contrapporre una resistenza basata su identità rigide e su “radici da riscoprire”, tali nostalgie non sono nient’altro che “il riflesso impotente e sanguinoso della globalizzazione in atto”. Allora l’autore si chiede se con questo processo di trasformazione del corpo non stiamo tornando al paradigma delle primitive società paleolitiche in cui il corpo ha un posto centrale e permaneva indiviso tra cultura e natura permettendo uno scambio simbolico. Nella società neolitica (di cui quella industriale è un ulteriore sviluppo) invece il corpo viene valorizzato solo in quanto sede dell’Io, e vittima di un rigido assolutismo spiritualistico non è più capace di questo scambio simbolico e dell’unione tra io e comunità. Forse il nostro futuro è riprendere il modello tribale e nomade del paleolitico in modo da utilizzare pienamente e integralmente le tecnologie di comunicazione attuali: “Per avviare un nuovo scambio simbolico, un nuovo general intellect, una mente davvero collettiva, che non prescinda più, questa volta, dal corpo, perché il nostro corpo digitale è ormai ovunque.“


Antonio Caronia

Il corpo virtuale: dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti

Muzzio Editore

Pagg.: 204


Estropico