Università degli Studi di Pisa
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Anno Accademico 2005-2006

Vincenzo Russo

Più che Umani

La Bioetica filosofica e le tecnologie del potenziamento psicofisico


Relatore: Prof. Sergio Bartolommei


Sezione Seconda: Due argomenti preliminari

Possiamo passare senz’altro al dibattito sui risvolti morali del biopotenziamento. In questa sezione voglio analizzare due argomenti che possono essere sollevati, il primo come obiezione, il secondo come supporto, per liquidare fin da subito la discussione. Il mio scopo non è solo mostrarne i limiti, ma anche svilupparne le implicazioni con la speranza di poter inquadrare il tema dell’etica del biopotenziamento da una prospettiva migliore.

Capitolo 5: Oltre la terapia

5.1 La distinzione terapia/miglioramento e i suoi problemi

Una delle prime cose che il PCB fa notare nel suo rapporto, è come le nuove tecnologie utili per il biopotenziamento vengano in origine sviluppate per scopi terapeutici e che il problema morale sorga da quella

“inestirpabile passione (urge) umana nei confronti del miglioramento, passione sfruttata dagli interessi commerciali e benvista da quelle molte persone che cercano una superiorità competitiva nelle loro lotte per il primato sociale (get ahead)”.52

Siccome, in generale, ogni mezzo è suscettibile di essere usato per differenti scopi, possiamo subito iniziare col prendere atto di una distinzione: lo stesso biopotenziamento può, in base alle condizioni di salute e agli scopi del soggetto fruitore, essere inteso come una terapia oppure come un miglioramento di un organismo già sano. Da un punto di vista medico53, è possibile sfruttare la distinzione per separare gli usi leciti di un intervento da quelli quantomeno futili: una terapia infatti è, in linea generale, sempre approvabile, anche se si concretizza in un aumento di certe caratteristiche o facoltà, mentre un miglioramento non rientra nell’ambito della guarigione e quindi è molto più soggetto al dubbio morale. In tal modo si contribuisce a delimitare l’attività propria dei medici, i quali continuano a svolgere il ruolo di guaritori, e al contempo si fornisce uno strumento concettuale agli organi decisionali della sanità pubblica, che devono stabilire quali interventi sovvenzionare e quali no. Se poi constatiamo che, di fatto, i medici detengono “un monopolio più o meno completo sulla prescrizione e la somministrazione della biotecnologia”54, nel restringerne gli usi leciti alla dimensione terapeutica si vanno indirettamente a limitare e a delegittimare altri tipi di interventi.

Ma i critici non possono cavarsela così a buon mercato. Sebbene impostare l’intera problematica nei termini di una distinzione netta tra due modalità d’intervento possa fornire una facile via d’uscita, bisogna assicurarsi che la distinzione a cui si fa appello sia giustificata, netta e inequivocabile. Qui mi propongo di mostrare che non è affatto così, e che separare i biopotenziamenti terapeutici da quelli migliorativi serve solo per suffragare una particolare concezione della medicina, e di certo non per ragionare di questioni morali. Anzitutto, le due nozioni prese in considerazione comportano notevoli problemi di significato.

Definizione: Il termine “miglioramento”, soprattutto se riferito alle caratteristiche psicofisiche di un essere umano, è troppo generico e dipende in ultima istanza dal contesto. È generico per definizione, perché per “cambiamento in meglio, progresso”55 si possono intendere molteplici cose, e nella storia del pensiero non si contano le interpretazioni del concetto di progresso elaborate e argomentate. Ed è relativo per ovvie ragioni, perché si ottiene un miglioramento solo rispetto a delle condizioni di partenza. Queste considerazioni, all’apparenza banali, sono in realtà di fondamentale importanza per l’analisi morale della nostra tematica: se lo scopo principale del biopotenziamento personale è proprio quello di migliorarsi, allora buona parte della posta in gioco nel dibattito etico si giocherà su come intendere ciò che è meglio per sé e sulla libertà o meno di scegliere la direzione in cui “progredire”. Il termine “terapia” non è da meno, anche se pone lo stesso problema in modo indiretto. Sembra ovvia la sua definizione come “parte della medicina che tratta della cura delle malattie”56, ma così non facciamo altro che rimandare il dubbio alla distinzione malattia/salute, sulla quale non esiste, e forse non può darsi, un accordo unanime. Ora, è vero che questi problemi di definizione sono solo faccende terminologiche, ed è anche vero che, siccome terapia e miglioramento sono pratiche e non oggetti, possiamo sempre sperare di risolvere la faccenda una volta per tutte stipulando un accordo. In tal caso però una cosa è certa: se la distinzione non è reale ma solo convenzionale, su di essa non possiamo basarci per risolvere eventuali dubbi morali.

Accavallamento semantico: Un problema ulteriore deriva proprio dalla prassi medica attuale.  Infatti, dal momento che spesso il trattamento medico si risolve proprio in un miglioramento di certe caratteristiche considerate patologiche, non sempre è facile distinguere gli interventi migliorativi da quelli terapeutici. E poi, non è forse uno scopo nobile della medicina quello di migliorare le nostre condizioni di salute? Forse è meglio distinguere tra “miglioramenti relativi alla salute”, volti a eliminare o prevenire le condizioni patologiche, e “miglioramenti non relativi alla salute” che hanno lo scopo di potenziare determinate caratteristiche normali. Così l’accavallamento scompare, ma restiamo con un bel grattacapo: come distinguere le caratteristiche normali da quelle patologiche? Ritorniamo alla necessità di definire il concetto di “salute”.

Scarsa oggettività: Se non abbiamo a che fare con una capacità quantificabile, il giudizio su cosa sia migliore diventa soggettivo. Il biopotenziamento di una data prestazione può essere considerato un miglioramento in certi ambiti e per certe persone, e risultare invece neutrale, se non addirittura un peggioramento per altri ambiti e per altre persone. Questa scarsa oggettività si estende anche al concetto di malattia; col progresso della scienza medica si diagnosticano patologie sempre nuove e vecchi malanni vengono debellati. Inoltre, siccome la prassi medica non è centralizzata, non solo non esiste una nosologia (una classificazione sistematica delle malattie) univoca e definitiva, ma spesso la diagnosi dipende dall’opinione personale del singolo medico e dalla cultura in cui ci si trova. Chiaramente qui mi riferisco soprattutto ai disturbi comportamentali, ma, dal momento che i biopotenziamenti includono anche miglioramenti delle capacità psichiche, la questione per il nostro argomento è centrale.

Ci troviamo quindi nella necessità di chiarire la distinzione terapia/miglioramento prima di poterla applicare; non possiamo semplicemente darla per scontata, soprattutto se su di essa vogliamo fondare una critica morale alle pratiche di “miglioramento non relativo alla salute”. Credo sia opportuno seguire E.T. Juengst, esperto di etica biomedica, quando individua tre concezioni utili per stabilire una buona definizione57: una fa capo proprio all’idea di salute, una a quella di normalità, mentre l’ultima concede che i due concetti siano frutto di una “costruzione sociale”.

5.2 La concezione medica classica

Ho detto che, per risolvere il problema dell’accavallamento semantico, forse conviene abbandonare la distinzione terapia/miglioramento e parlare invece di “miglioramento relativo alla salute” e “miglioramento non relativo alla salute”. Un intervento, nel caso specifico un biopotenziamento, appartiene alla prima categoria se è mirato al trattamento degli individui che soffrono di malattie, invalidità o menomazioni, nel tentativo di riportarli allo stato di salute; mentre invece appartiene alla seconda se è teso a potenziare una o più caratteristiche di un individuo sano. Un esempio del primo caso è quello che vede lo sviluppo e l’impianto di un apparato visivo bionico che consenta di restituire la vista a chi l’abbia persa in un incidente o per una malattia. Un esempio del secondo caso, è l’impianto di un apparato visivo bionico in un individuo senza problemi di vista, per permettergli di percepire uno spettro di frequenze superiori a quello dell’occhio umano. Sfruttando questa distinzione, basta poter identificare una patologia per autorizzare il biopotenziamento. Un altro vantaggio di questo approccio è che per individuare una malattia o una menomazione bisogna effettuare una diagnosi, cioè un procedimento che aspira ad essere altamente oggettivo e osservabile. Infine essa ha il vantaggio di essere semplice e, soprattutto, coerente con buona parte della pratica medica, perché attualmente i biopotenziamenti sono quasi tutti sviluppati con lo scopo di migliorare le condizioni di chi non è in salute. Eppure i problemi non mancano.

Clausola della Prevenzione: Anzitutto ci troviamo in difficoltà con le pratiche mediche volte alla prevenzione, le quali spesso si concretizzano in miglioramenti. Se la nozione di “miglioramento” deve servire a tracciare un limite oltre il quale il medico non svolge più il compito di guaritore, allora bisogna subito aggiungere una clausola per includere tra i “miglioramenti relativi alla salute” tutti quegli interventi medici che aumentano certe caratteristiche biologiche innate, di fatto migliorandole, con il solo scopo di prevenire l’insorgere di certe patologie: dopotutto la profilassi spesso consiste nel rafforzare, e dunque potenziare, la capacità di un corpo sano. A questo punto però, secondo questa concezione, non è più necessario dover diagnosticare una patologia per giustificare un biopotenziamento: basta avere la prospettiva di una possibile patologia. Ma allora sorge spontanea la domanda: se avessimo tutti un corpo e una mente biopotenziati, non saremmo generalmente più resistenti alle malattie e, quindi, più in salute? E se, da un punto di vista economico, al sistema sanitario convenisse prevenire le patologie croniche piuttosto che curarle, non sarebbe opportuno attuare programmi per il biopotenziamento di massa? Sembra un’ipotesi plausibile. Forse allora è arbitrario limitarsi al miglioramento del sistema immunitario (come già facciamo con i vaccini obbligatori), e conviene espandere il concetto di “salute” in modo da comprendere la profilassi di tutte quelle patologie di larga diffusione, quali il cancro, il diabete, le malattie cardiovascolari. Ma a questo punto, non possiamo più essere sicuri del fatto che la profilassi non includa anche un vero e proprio miglioramento di alcune funzionalità innate del soggetto. E allora anche la distinzione tra “miglioramento relativo alla salute” e “miglioramento non relativo alla salute” non sembra così chiara e precisa.

Elasticità nosologica: Inoltre, non bisogna dimenticare che, siccome in medicina non esiste, e non potrebbe d’altronde esistere, un elenco completo e definitivo di tutte le malattie e menomazioni riscontrabili nell’uomo; e che non c’è un canone univoco per stabilire quali fenomeni debbano essere ricondotti a una patologia e quali no; allora la decisione se un trattamento sia terapeutico o migliorativo alla fine spetta in larga parte all’occhio esperto dei singoli professionisti. Ma, siccome “non è difficile coniare nuove malattie allo scopo di giustificare l’uso di interventi migliorativi”58, la concezione medica lascia la decisione sulla legittimità dei vari biopotenziamenti in balìa di una certa “elasticità nosologica”: l’interpretazione di un quadro clinico rischia di essere condizionata dal contesto socioculturale e dagli interessi in cui il singolo medico opera. A tal proposito non bisogna sottovalutare l’influenza che in questo tipo di interventi possono esercitare gli interessi economici delle cliniche private e delle aziende impegnate nello sviluppo di tecnologie NBIC.

Gli scopi della medicina: Per concludere, il problema centrale della concezione medica per distinguere terapia e  miglioramento è che i concetti di “malattia” e “salute” non sono così ovvi e, soprattutto, non dipendono esclusivamente dal progresso delle scienze mediche. In buona sostanza non c’è più una concezione univoca di quali siano gli scopi della medicina59; e comunque, ormai non è più possibile sostenere che la salute sia un problema esclusivamente medico. Si tratta infatti di un concetto centrale per almeno altre due categorie di soggetti. Da una parte c’è il singolo individuo: la salute in questo senso è parte integrante del benessere personale, una relazione intima tra sé stessi e il proprio corpo. D’altra parte c’è la collettività: la salute dei singoli cittadini è anche questione di igiene pubblica e come tale rientra negli interessi dello Stato. Questo per dire che la distinzione terapia/miglioramento, se dev’essere stabilita in base al concetto di “salute”, allora deve farsi carico di tre istanze. Quella medica, storicamente preponderante, di oggettività scientifica; quella pubblica, di salvaguardia e promozione del benessere dei cittadini; e quella privata, più moderna, che viene sollevata nelle società liberali dalle singole persone in base al diritto di autonomia sulle scelte che riguardano il proprio corpo.

Dunque, adottando la concezione medica, ci esponiamo al rischio di abusi e decisioni arbitrarie, siamo costretti a dover trovare una definizione di salute univoca e stabile, e comunque rischiamo di arroccarci su una posizione alquanto limitata e obsoleta. Come uscire da questa strettoia?

5.3 Un modello di normalità

Per rendere utile la distinzione terapia/miglioramento nell’ambito delle decisioni pubbliche, possiamo legare il concetto di salute a una qualche definizione di tipicità o di funzionamento normale di un organismo che funga da standard e pietra di paragone per valutare l’opportunità di un intervento. In questo modo possiamo distinguere ciò che è necessario da un punto di vista medico, e quindi moralmente lecito, dagli interventi superflui e moralmente sospetti. Secondo N. Daniels, ideatore di questa proposta, lo scopo della medicina è “mantenere, ristabilire o compensare la perdita di funzionalità e il restringimento delle opportunità causati dalla malattia e dalla menomazione”60 . Questo significa anche pensare nei termini di una distribuzione equa dei servizi medici, che in tal modo vengono intesi come strumenti pubblici necessari per garantire a ogni cittadino il ventaglio di opportunità esistenziali disponibile a chiunque goda di una fisiologia non patologica. Per decidere poi quali caratteristiche debbano considerarsi “normali”, potremmo adottare la nozione di “funzionamento tipico della specie”, e stabilire un’ampiezza di deviazione standard per tutte le caratteristiche umane suscettibili di potenziamento: chi è al di fuori di questo standard ha diritto all’intervento, gli altri no. La proposta di Daniels, nominata “Normal Function Model” (modello basato sul funzionamento normale), ha riscosso molti consensi perché propone una concezione moderna della medicina, non più interpretata come una pratica invasiva mirata a salvare il paziente ad ogni costo, bensì come una scienza volta a garantire a tutti la possibilità di vivere un’esistenza più libera.

Sfumature di Tipicità: Ma qui sorge subito un grosso problema. Dato che “la maggior parte delle attività umane cade lungo un continuum o una curva di «distribuzione normale»”61, come e in base a quali assunzioni, si dovrebbe stabilire la “tipicità” di un essere vivente? Abbiamo sostanzialmente due strade da percorrere, quella statistica e quella teoretica. Un’elaborazione statistica incontrerebbe però enormi difficoltà di ordine pratico; inoltre, come abbiamo visto nella prima sezione, molti biopotenziamenti coinvolgono facoltà difficilmente quantificabili (es. il buon umore, la memoria, la bellezza) e quindi recalcitranti alle medie statistiche. La via teoretica non è meno impervia perché potrebbe sempre essere accusata di parzialità, soprattutto per quanto riguarda le caratteristiche emotive e comportamentali: quale sarebbe il “funzionamento cerebrale tipico” della specie umana e in base a cosa andrebbe stabilito? Esiste una emotività tipica e in cosa consiste? A queste domande non è possibile rispondere se non in modo arbitrario.

Discriminazione: In generale, pur ammettendo che si riesca a raggiungere un accordo sulla definizione di “funzionamento tipico della specie umana”, il modello di Daniels presta il fianco a una forte critica. Il punto è che esso funziona selezionando le cause dell’anormalità, non l’anormalità in sé, rischiando in tal modo di trasformare il riconoscimento di una patologia in un fattore di discriminazione sociale, soprattutto in relazione alla copertura fornita dalla sanità pubblica. Vediamo come. Sfruttando il concetto di “funzionamento normale”, la sanità pubblica può agire con sicurezza per eliminare tra la popolazione tutte quelle “differenze casuali e svantaggiose che capitano quando una cattiva salute danneggia il funzionamento fisico, sensoriale o cognitivo”62 di un individuo. Il modello infatti ha come scopo dichiarato quello di voler promuovere l’equa opportunità sociale dei cittadini. Il problema però è che il concetto stesso di normalità, dovendo essere per definizione imparziale, non può armonizzarsi con le esigenze personali dei singoli cittadini e rischia pertanto di creare iniquità. Infatti, se sul piano materiale non c’è molta differenza tra chi “funziona in modo normale” ma ha una caratteristica sotto la media (es. una persona sana ma molto bassa), e chi è sotto la media perché soffre di un disturbo (es. una persona bassa perché affetta da carenza di ormone della crescita), sul piano formale e normativo invece solo quest’ultimo caso verrebbe considerato “anomalo” e avrebbe diritto all’intervento63. Questa conclusione sembra ingiusta, perché anche chi si trova nel primo caso soffre a causa di una caratteristica poco sviluppata. In pratica il modello di Daniels rischia di fare della malattia un fattore di discriminazione!

normalizzazione: A questa accusa di parzialità si può rispondere che lo scopo della medicina non è quello di livellare le differenze tra le persone e che gli interventi debbano solo cercare di recuperare quel “pieno spettro” di capacità che il paziente avrebbe potuto aspettarsi se non avesse avuto la patologia64. In questo modo, Daniels accetta il fatto che gli esseri umani nascano con potenzialità innate diverse. Purtroppo però la concezione della terapia come ripristino della normalità (o meglio, di una salute normale o di un patrimonio genetico normale) finisce per sollevare più problemi di quanti ne risolva. La filosofa A. Silvers65 fa infatti notare come l’identificazione “anomalo = svantaggioso” sia molto discutibile e non sempre corrisponda al vero. Nel valutare una caratteristica non possiamo limitarci a confrontare il singolo individuo con uno standard definito su basi, per quanto scientifiche, fissate a monte, e questo perché dobbiamo sempre considerare l’ambiente (naturale e soprattutto sociale) in cui tale caratteristica si presenta. Lo stesso desiderio di ripristinare il normale funzionamento di caratteristiche anomale senza però voler livellare le differenze, sembra guidato più da esigenze politiche che biologiche66 e infatti il modello di Daniels adotta in modo surrettizio un giudizio morale (l’aperta competitività con eque opportunità di partenza, tipica del liberalismo capitalista), perché, come ben dice la Silvers la natura “tende a eliminare gli individui veramente malfunzionanti, non a ripararli”67. Il “funzionamento tipico della specie”, proprio perché pretende di essere ancorato a criteri naturali, va allora ad appiattire il normale spettro di opportunità esistenziali sul tipo di creatura che siamo per nascita. Ma siamo sicuri di voler adottare questa limitazione? Le opportunità della nostra vita sono squisitamente individuali e, se la medicina vuole sinceramente assumersi la responsabilità di alleviare le sofferenze dei suoi pazienti, allora è chiamata ad ascoltare questi ultimi, non un modello neutro e impersonale.

Inoltre, se la concezione di funzionamento normale è basata su ricerche empiriche, e quella di Daniels vuole esserlo, allora non può servire per avversare sul piano etico il desiderio di miglioramento, perché per farlo dovrebbe adottare una contaminazione indebita tra due sensi ben diversi del termine “normalità”: uno è il senso moralmente neutro del valore numerico ottenuto tramite una media matematica, del tutto contingente al periodo storico, alla popolazione presa in esame e alle conoscenze attuali; l’altro invece è il valore morale di cui il termine si carica in ambito medico o sociale quando lo si attribuisce alla singola persona. Chi sostiene il modello del funzionamento normale e una concezione di “essere umano normale” con lo scopo di criticare moralmente il biopotenziamento, sta implicitamente sostenendo che “è meglio funzionare in modo normale”. Ora, a parte la scarsa plausibilità di un’affermazione del genere (a una prima intuizione sembrerebbe meglio funzionare in modo più che normale!), questo significa che fondare la distinzione terapia/miglioramento sulla definizione di uno standard di funzionamento tipico della specie, può facilmente rivelarsi una spinta verso la normalizzazione sociale, con conseguente spostamento del problema in ambito politico. I risvolti morali della normalizzazione e del conformismo in relazione al biopotenziamento saranno ripresi nel capitolo 12.

il concetto di normalità si rivela controproducente: in ambito bioconservatore, lo stesso PCB fa notare un altro problema derivante dalla distinzione tra terapia e miglioramento basata sul concetto di funzionamento standard. Per poter stabilire una tipicità dobbiamo prima assumere l’esistenza di un’integrità umana naturale (natural human whole), un modello di sistema organico “il cui buon funzionamento sarebbe lo scopo della medicina terapeutica”68. Ora, a ben vedere questo concetto di “organismo normale” implica l’esistenza di un equilibrio naturale, equilibrio che, quando viene perturbato, dà origine proprio a quei mali la cui eliminazione è il fine ultimo della medicina. Però in questo modo, ammettendo cioè che lo scopo della terapia biomedica sia esclusivamente quello di ristabilire l’integrità/salute, adottiamo implicitamente l’idea che il corpo umano è naturalmente “limitato e fragile”69, vale a dire inadeguato e suscettibile di miglioramento. Esso è fragile perché la patologia viene considerata come stato anomalo, pur essendo in realtà un fenomeno a rigor di logica naturale. Ed è limitato perché, rispetto alla sua stessa volontà e dei suoi stessi desideri, il corpo dell’uomo è definito come un organismo caduco, che si stanca facilmente, invecchia (sempre troppo) rapidamente e, prima o poi, muore. Questa differenza, questa distanza tra aspirazioni personali e possibilità organiche è fonte non solo di sofferenze e frustrazioni (ecco in che senso la sanità pubblica può svolgere un compito morale), ma anche di quel desiderio individuale di superare i deficit nella dotazione congenita, l’insieme di talenti e doni naturali che proprio la natura sembra distribuire in maniera così iniqua tra le persone.

Pertanto, ha poco senso affidarsi a una nozione di normalità con la speranza di persuadere la gente a non usare i biopotenziamenti. Chi percepisce se stesso come inadeguato o inferiore agli altri, chi nasce senza alcuna patologia ma crede comunque di avere una dotazione “imperfetta”, si sentirà sempre legittimato all’applicazione migliorativa delle nuove tecnologie. Il problema morale si fa ancor più pressante se consideriamo che il monopolio sui biopotenziamenti da parte della professione medica potrebbe ben presto scemare. Quando le tecnologie NBIC diverranno accessibili, probabilmente si formerà un’intera classe di “operatori di biopotenziamenti” parallela alla classe medica. Questi operatori non saranno dei guaritori e il loro mestiere si limiterà all’innesto di biopotenziamenti e alle varie operazioni conseguenti (manutenzione delle protesi cibernetiche, aggiornamento software e hardware eccetera); opereranno in privato e saranno ampiamente indipendenti dal sistema di sanità pubblica. In uno scenario del genere, far leva sulla distinzione terapia/miglioramento per delegittimare moralmente l’applicazione dei biopotenziamenti, sembra una mossa alquanto debole: come lo stesso PCB ammette, i sogni di lunga vita, prestazioni superiori e felicità

“in fondo non hanno niente a che vedere con la medicina, a parte il fatto che saranno i dottori a usare i mezzi per realizzarli. Di conseguenza, sono solo accidentalmente dei sogni «oltre la terapia».”70

5.4 La concezione “liberale”

Se, come abbiamo visto discutendo il rischio di abusi insito nella concezione medica della distinzione terapia/miglioramento, non esiste alcuna maniera oggettiva e definitiva per identificare tutte le patologie e, come il modello del funzionamento normale ha messo in evidenza, spesso non è possibile distinguere una malattia da un problema di ordine sociale, allora forse conviene non lasciare alla sola comunità medica né interamente allo Stato il monopolio sulla questione. Forse è meglio abbandonare del tutto la ricerca di una delimitazione ultima dei termini “salute” e “normalità”, e seguire la linea suggerita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la quale ha adottato una definizione di salute appositamente generale e alquanto suscettibile d’interpretazione personale: un individuo si dice in salute quando si trova in uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale. Aderendo a questa concezione “liberale” della differenza terapia/miglioramento, un determinato intervento può essere considerato a buon diritto terapeutico o migliorativo in base al contesto culturale in cui viene effettuato e alla negoziazione tra singoli medici, o meglio “operatori sanitari”, e singoli pazienti, o meglio “clienti del servizio sanitario”. Per questa via si riconosce che la medicina non ha né dei limiti né degli scopi precisi e determinabili a priori, e che le sue pratiche “riflettono i valori correnti della professione medica e la disponibilità ad effettuare gli interventi in base al caso specifico”71. Si tratta di una concezione più moderna, perché l’opportunità e le modalità dell’intervento vengono decise anche dal singolo individuo, il quale può sentirsi più autonomo nel rapporto con la sua condizione psicofisica e anche più responsabile del proprio corpo. Non esistono canoni o termini di paragone arbitrari: il concetto di salute si arricchisce di un significato personale, che ognuno, in base al proprio ideale di benessere, può conferirle, e la distinzione tra interventi terapeutici e migliorativi viene a configurarsi più come una negoziazione sociale che come un limite imposto dall’alto. Secondo questa concezione inoltre, il medico si riserva il diritto di scegliere se effettuare o meno l’intervento, e comunque ha solo il dovere di operare in base al consenso informato del paziente e di promuovere il suo benessere.

Questa linea di pensiero è, a mio modo di vedere, la più condivisibile, ma annulla l’obiezione da cui eravamo partiti perché destabilizza la distinzione terapia/miglioramento e quindi la rende sostanzialmente inutile nelle mani della critica bioconservatrice, la quale avrebbe invece bisogno di un punto fermo su cui appoggiare una delegittimazione delle pratiche di biopotenziamento a scopi migliorativi72.  

5.5 Conclusione

Insomma, chi voglia basare una critica al biopotenziamento sfruttando la distinzione terapia/miglioramento, si pone su un terreno alquanto difficile da percorrere. Deve eliminare le ambiguità semantiche dei due termini, inserire la clausola della prevenzione, stabilire su quali basi teoriche ed empiriche effettuare la distinzione e affrontare i problemi di tale scelta. Eppure, dopo tutto questo lavoro, si potrà solo chiarire ciò che i medici, sempre che vengano intesi come guaritori, hanno il dovere di fare o non fare, e ciò che la sanità pubblica deve o non deve rimborsare73. Resterebbero insondate tutte le ripercussioni morali degli interventi di biopotenziamento migliorativo che non rientrano nel campo della medicina. È pur vero che, allo stato di cose attuale, le nuove tecnologie sono appannaggio della classe medica e gli interventi di biopotenziamento sono amministrati in ospedali, ma, sul piano amministrativo, per limitare queste possibilità esclusivamente alla terapia, bisogna prima dimostrare che gli usi alternativi, cioè quelli finalizzati al miglioramento personale, siano moralmente sbagliati e/o inconsistenti con alcuni importanti valori della società74. Quindi, lo spazio del dubbio morale resta aperto perché la distinzione, per quanto ci permetta di includere nell’ambito dell’etica della medicina tutta una classe di problemi, non dice molto sulla decisione personale relativa agli interventi di miglioramento: cosa dovremmo pensare in questo caso? Si tratta di interventi limitati allo spazio di autonomia individuale, e quindi ogni libero cittadino ha il diritto di scegliere se e come biopotenziarsi, oppure si possono sollevare delle solide obiezioni all’idea della libera disponibilità del proprio corpo?

Prima di passare alla trattazione di un altro argomento preliminare, vorrei far notare come, storicamente, sia stato proprio il progresso delle scienze mediche a favorire la prospettiva del potenziamento. La causa diretta di questo slittamento concettuale è stata infatti la diffusione di una mentalità volta alla prevenzione delle patologie. Questo modo di pensare è stato uno sviluppo del tutto razionale della medicina e ha avuto molte conseguenze, tra le quali bisogna annoverare un progressivo ampliamento della propaganda a favore dell’igiene, mossa non solo dagli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto dagli organi istituzionali dello Stato: la medicina oggi non punta solo a recuperare la salute dei pazienti, ma anche a farli restare in salute il più a lungo possibile grazie alla prevenzione. Tale spostamento concettuale è stato forse un trampolino di lancio verso il potenziamento, e non a caso la principale forma di prevenzione è il vaccino, che è anche a tutti gli effetti un biopotenziamento del sistema immunitario. L’igiene ha infatti sostanzialmente due modi per prevenire un rischio sanitario: eliminarne le cause o potenziare la salute dei cittadini a tal punto da renderli immuni75. È qui che si apre lo spazio concettuale per il potenziamento: se la prevenzione è una scelta saggia e razionale, tanto vale potenziare il nostro organismo per renderlo più resistente ai contagi e ai malanni che ci attendono in agguato nel corso della vita. Ma se questa connessione è plausibile, allora la tendenza migliorista insita nella MCT non è affatto una perversione degli scopi della medicina, bensì la loro naturale evoluzione.

Capitolo 6. Sul valore morale dei mezzi

6.1 Gli argomenti “dal precedente”

Le tecnologie NBIC per il potenziamento dell’organismo umano promettono di essere molto potenti anche perché potranno essere utilizzate per soddisfare un’ampia gamma di scopi. I biopotenziamenti infatti, nonostante siano originariamente sviluppati in base a esigenze di ordine clinico (prevenzione “a monte”, recupero delle menomazioni, stabilizzazione dell’umore), sono abbastanza generici da poter essere impiegati anche per altri fini. Ovviamente, questa caratteristica non è esclusiva delle tecnologie NBIC, anzi, in linea generale quasi ogni tecnica, anche se è originariamente progettata per risolvere un problema specifico, può in seguito rivelarsi utile a chi ha propositi del tutto diversi. Questa divergenza tra scopi iniziali e scopi possibili nell’applicazione dei mezzi tecnologici non solo accresce l’imprevedibilità a medio e lungo termine a corredo di ogni scoperta tecnoscientifica, ma consente anche di porre le basi per fare una distinzione tra fini e mezzi: se i mezzi non sono esclusivi rispetto al fine, cioè se lo stesso mezzo può essere utilizzato per realizzare fini diversi e non prevedibili, allora possiamo assumere che i mezzi non abbiano di per sé implicazioni morali rilevanti, e che pertanto il nostro giudizio debba prendere in considerazione esclusivamente le intenzioni e i motivi dell’agente, o le conseguenze dell’azione, o entrambi.

Ora, facendo leva su questa differenza, il sostenitore della MCT potrebbe sottrarsi fin dal principio a ogni critica sostenendo che la convergenza tecnologica stia mettendo a nostra disposizione solo dei mezzi più efficienti per soddisfare scopi antichi e legittimi. Se la distinzione è valida, infatti, non ha senso giudicare moralmente sbagliati i biopotenziamenti: si tratta solo dell’avvento di nuovi strumenti tecnologici, i quali possono essere usati allo stesso modo per scopi giusti e per biechi fini. Quindi chi si sente oltraggiato dal loro impiego farebbe meglio a contestare direttamente i desideri di lunga vita, prestazioni superiori e controllo della psiche, e cioè gli scopi. Ecco lo schema di questa classe di ragionamenti, chiamati da Parens76 argomenti dal precedente:

   * Per raggiungere lo scopo X, finora si sono utilizzati i mezzi tradizionali.
   * Nuovi mezzi permettono di raggiungere in maniera più efficace lo stesso scopo X.
   * Se non c’è alcun problema morale nel voler raggiungere lo scopo X, allora non c’è alcun problema morale nell’usare i nuovi mezzi.
   * Se c’è qualche problema morale nel voler raggiungere lo scopo X, allora bisogna criticare lo scopo, non i mezzi.

A questo punto il bioconservatore può rispondere in due modi: o accetta la sfida e argomenta direttamente contro i fini (cioè i desideri di lunga vita, felicità e prestazioni superiori), oppure nega la validità di questo tipo di ragionamenti e cerca di mostrare come i mezzi in questione abbiano implicazioni morali di fatto e di per sé. In questo capitolo cercherò di capire se quest’ultima strada sia percorribile e a quali conseguenze conduca. Dunque, per muovere una critica efficace bisogna sostenere due tesi insieme:

   * Anche i mezzi (in generale) hanno implicazioni morali.
   * I biopotenziamenti possono essere i mezzi moralmente sbagliati per raggiungere scopi giusti.

6.2 In che senso il mezzo utilizzato può influire sul giudizio morale di un’azione?

Per poter rispondere a questa domanda occorre fare una ulteriore distinzione. C’è infatti un senso banale per cui “il fine non giustifica i mezzi”, perché col termine “mezzo” possiamo intendere anche un’azione, suscettibile a sua volta di giudizio morale. Guadagnare soldi per mantenere la propria famiglia è uno scopo legittimo che però potrebbe essere raggiunto con azioni sbagliate, quali il ricatto o l’estorsione. Per questo, prima di giudicare, dobbiamo precisare la natura del mezzo coinvolto:

Mezzo come azione: Un atto eseguito con l’intento di raggiungere un determinato scopo.

Mezzo come strumento: Un utensile, un dispositivo, un oggetto che è creato per o può servire a raggiungere uno scopo. Esso può essere tangibile come un martello, o intangibile come un tribunale, può essere realizzato ad hoc o improvvisato, avere un origine artificiale oppure naturale.

Mezzo come metodo: Il metodo è l’insieme di azioni e strumenti che usiamo per raggiungere uno scopo.

Ora, non importa se un’azione sia fine a sé stessa o serva come mezzo per raggiungere uno scopo. Essa è sempre esposta al giudizio morale. Anche i metodi, siccome includono delle azioni, possono a loro volta essere deprecabili. È per questo che, ad esempio, gli animalisti si sentono legittimati a condannare (ma solo parzialmente) il metodo scientifico in quanto annovera, tra le tecniche di ricerca più efficaci, la sperimentazione su cavie. E gli strumenti possono essere buoni o cattivi di per sé? No, essi al massimo possono essere efficaci o meno, adeguati o inadeguati. Anche gli utensili più macabri, quali gli strumenti di tortura, non sono moralmente imputabili di alcunché: se crediamo che le sevizie siano in ogni caso immorali, dobbiamo prendercela con chi tortura, non con gli strumenti utilizzati. Questo non c’entra con le nostre opinioni in ambito normativo, né con la questione se siano più importanti i principi morali o le conseguenze delle nostre azioni: gli strumenti non hanno intenzioni e non agiscono, quindi non possono essere intrinsecamente giusti o sbagliati.

Ciononostante, così come giudichiamo la decisione di agire in un certo modo, noi potremmo voler giudicare la scelta di un particolare strumento. Questo è possibile perché, onde raggiungere un determinato scopo, potrebbero esserci delle buone ragioni morali per preferire uno strumento piuttosto che un altro. Giudizi del genere sono più quotidiani di quanto sembri: se credo che sia moralmente sbagliato inquinare, dovrei preferire i mezzi di trasporto più sostenibili per l’ambiente; se credo che in guerra sia moralmente sbagliato uccidere innocenti, dovrei preferire le armi più precise e dirette al posto delle mine antiuomo; se reputo deprecabile giustiziare i criminali dovrei optare per strumenti di punizione alternativi alla sedia elettrica. Perché giudizi del genere sono possibili? Quali sono le caratteristiche rilevanti in base alle quali possiamo motivare sul piano etico la scelta di certi strumenti al posto di altri?

6.2.1 Strumenti diversi possono avere effetti collaterali diversi

In primo luogo, l’impiego di certi strumenti ha degli effetti collaterali che possono risultare sgraditi perché in contrasto con alcuni nostri principi o valori. Quale peso gli effetti collaterali possono esercitare nella scelta di uno strumento?

Per rispondere siamo costretti a operare una distinzione ulteriore basata sulla diffusione di questi effetti, separando i rischi sociali da quelli personali. Se l’impiego di un determinato strumento comporta un rischio per gli altri, allora chi lo sceglie è coinvolto moralmente perché diventa imputabile dei potenziali danni che la sua scelta potrebbe arrecare a terzi. Per quel che riguarda il nostro tema, la questione è se l’impiego, e soprattutto la diffusione, dei biopotenziamenti e delle tecnologie NBIC ad essi legate possano mettere a rischio la popolazione e creare danni alla società. Ciò rientra proprio in uno dei due motivi fondamentali del transumanismo, cioè la futurologia come riflessione a carattere precauzionale sugli effetti a medio e lungo termine dei biopotenziamenti. Si tratta di un dubbio legittimo che affronterò più avanti, nella sezione dedicata alle obiezioni di prudenza.

E se invece lo strumento comporta rischi esclusivamente personali? In questo caso la scelta di un biopotenziamento potrebbe porci di fronte a un conflitto interno tra il valore di ciò che speriamo di ottenere (il miglioramento) e quello di ciò che potremmo perdere. Ovviamente questo tipo di preferenze ha un carattere prettamente individuale e quindi non è possibile giudicarle in modo univoco giuste o sbagliate.

In ogni caso, gli argomenti dal precedente sono validi solo se si adotta una descrizione molto superficiale degli effetti legati all’uso di strumenti diversi: se infatti il nostro giudizio si ferma a prendere in considerazione solo le conseguenze rilevanti rispetto allo scopo prefissato, allora è ovvio che i mezzi appariranno sempre indifferenti sul piano morale. In vero, sembra proprio che abbiamo una innata tendenza a guardare solo verso l’effetto immediato e previsto delle nostre azioni, trascurando tutto il resto. Ma questa miopia deriva per lo più da una scarsa comprensione della portata degli strumenti impiegati.

Prima conclusione: Lo schema degli argomenti dal precedente è incompleto perché non tiene conto del fatto che gli strumenti possono influire sulle conseguenze dell’azione ben al di là dello scopo previsto. Quindi, per coerenza, sarebbe opportuno adottare una prospettiva più ampia e ricordare che il mezzo, oltre a recare l’effetto desiderato, è sempre accompagnato da una serie di ripercussioni, più o meno evidenti e, soprattutto, più o meno desiderabili.

6.2.2 L’importanza del metodo

Sopra ho detto che gli strumenti sono parte integrante del metodo con cui vogliamo raggiungere lo scopo prefissato. Ora, se questo metodo è per noi importante e crediamo che abbia un valore (culturale, simbolico, storico), potremmo disapprovare la scelta di uno strumento diverso proprio perché potrebbe privare l’attività di quel suo amato carattere peculiare. Insomma, se lo strumento è parte caratterizzante dell’attività allora non è indifferente rispetto al valore della stessa.

Questo è il caso di tutte quelle attività che ci piacciono di per sé, non solo perché hanno uno scopo. In tal senso possiamo dire che il metodo impiegato conferisce un valore all’azione, e capire coloro che, nell’epoca digitale, si ostinano a scrivere con la penna: essi non amano schiacciare tasti e tenere gli occhi fissi su un monitor, perché preferiscono l’odore dell’inchiostro e il contatto con la carta. Se una attività ha per noi un valore proprio per come è svolta, con tutta probabilità cambiare il metodo usato può cambiarne il valore. Questo avviene senza dubbio se il metodo fa parte della definizione stessa dell’attività. Pertanto dobbiamo ammettere che gli strumenti non sono tutti uguali per quel che riguarda l’esperienza stessa di certe attività: strumenti differenti, proprio perché permettono di realizzare più o meno efficacemente l’effetto desiderato, modificano il modo in cui l’agente esperisce l’azione e di conseguenza possono privarlo di tutto quel complesso di sensazioni ed emozioni ad essa associate77.

Questo fenomeno ha delle ripercussioni moralmente rilevanti? Faccio torto a qualcuno se, poniamo, ottengo la pace dei sensi per mezzo di una pasticca piuttosto che con la meditazione? Ovviamente no. L’unica persona che potrebbe risentirsi della scelta a favore del farmaco sono io. Esistono forse delle attività dotate di un valore collettivo che verrebbe sminuito dalla scelta di uno strumento nuovo o diverso? Sembra difficile trovarne qualcuna.

Seconda conclusione: Se il valore che attribuiamo ad un particolare corso d’azione dipende anche dal modo in cui esso viene realizzato, allora la scelta degli strumenti da impiegare acquisisce, rispetto a quel particolare corso d’azione, rilevanza morale. Quindi, per quanto i nuovi strumenti siano in sé moralmente neutri, la decisione di preferirli potrebbe non esserlo.

Se queste conclusioni sono plausibili, i bioconservatori possono respingere gli argomenti dal precedente tacciandoli di incompletezza. L’applicazione di nuovi strumenti per raggiungere vecchi scopi deve pertanto essere sottoposta al vaglio critico della riflessione e del dibattito etici.  

6.3 Perché proprio i biopotenziamenti dovrebbero essere dei mezzi sbagliati?

A questo punto, il critico del biopotenziamento ha una carta da giocare: può sostenere che gli argomenti dal precedente sono troppo ingenui. Tuttavia, ciò non è sufficiente per delegittimare le nuove tecnologie per il miglioramento personale. Adottare la MCT infatti non significa essere dei “tecnofanatici” che si affidano ciecamente allo sviluppo tecnologico per risolvere ogni problema. Il transumanismo è sensibile all’esigenza di riflettere e ponderare l’opportunità e le conseguenze dell’utilizzo dei nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione per il miglioramento personale. Quindi, se il bioconservatore vuole sollevare un’obiezione concreta ha l’onere di dover giudicare immorali proprio le nuove tecnologie NBIC. Questo scopo però sembra già all’intuizione alquanto problematico: come è possibile sostenere che i mezzi di biopotenziamento siano intrinsecamente sbagliati, senza sostenere al contempo che sia invece lo stesso desiderio di migliorarsi ad essere sbagliato?

Questa riflessione ci porta a discutere alcune critiche:

   * I biopotenziamenti modificano l’agente e ciò è sbagliato in linea di principio ? Argomento dell’hybris.
   * Le nuove tecnologie sono artificiali, mentre i vecchi metodi sono più naturali ? Pregiudizio conservatore.
   * Tramite i biopotenziamenti l’agente perde l’esperienza del miglioramento ? Argomento dell’alienazione.
   * I biopotenziamenti annullano la disciplina e lo sforzo necessari al conseguimento di un obbiettivo, quindi svalutano l’obbiettivo stesso ? Argomento dello sforzo.
   * I biopotenziamenti incarnano un mentalità meccanicista incompatibile con l’interpretazione dell’essere umano come agente autonomo ? Dilemma del libero arbitrio.
   * I biopotenziamenti suffragano la mentalità strumentale e ci riducono a meri oggetti ? La paura del controllo.

6.3.1 I biopotenziamenti trasformano l’agente.

Il primo, radicale argomento che il bioconservatore può usare per condannare i biopotenziamenti, consiste nel denunciare che il loro campo d’applicazione è lo stesso agente. Secondo questa critica, le tecnologie in questione non sono solo strumenti, ma azioni, interventi sul corpo e sulla psiche umani. È proprio questo a renderli indesiderabili dal punto di vista morale: non sono altro che un’alterazione deliberata dell’agente, una trasformazione indebita di noi stessi in oggetti del nostro agire. Utilizzando i biopotenziamenti accettiamo che i nostri corpi e le nostre menti siano ridotti a meri dispositivi.

Questo argomento si fonda sul principio morale la cui validità, a mio modo di vedere, caratterizza buona parte del dibattito sulla MCT, e cioè che noi non abbiamo il diritto di intervenire e modificare troppo la natura, tanto meno la natura umana. Si tratta di una questione fondamentale che affronterò in seguito (vedi infra cap. 10); per ora voglio solo mostrare che non è possibile distinguere in modo netto, dal punto di vista degli effetti sul corpo, i biopotenziamenti dalla tecnologia “tradizionale”.

Il caso di studio emblematico verte sull’esigenza competitiva degli atleti che vogliono incrementare le proprie capacità per ottenere migliori risultati. Bene, esistono sostanzialmente tre modi per realizzare questo scopo: procurarsi un equipaggiamento migliore, allenarsi (quindi allenarsi di più, migliorare le tecniche di allenamento e procurarsi “fitness machinery” più efficace), oppure biopotenziarsi (tramite il doping, la terapia genica eccetera). Nel chiedersi se si possano tracciare delle differenze sostanziali tra questi tre mezzi, lo stesso PCB mostra come anche gli utensili quotidiani abbiano una forte influenza sia sull’attività nella quale vengono implementati, sia sul loro utente78. Ma in che modo ciò avviene?

L’utensile sparisce con l’abitudine: Per capire la portata dell’effetto che uno strumento esercita sull’azione e sull’agente, prendiamo in considerazione il fenomeno per cui un utensile tende a “sparire” alla nostra consapevolezza mentre viene utilizzato. Quando usiamo per la prima volta uno strumento, la nostra attenzione è tutta rivolta su di esso, nella speranza di trovare un modo corretto ed efficace per maneggiarlo. Poi, man mano che impariamo, ci accorgiamo anche che lo strumento “si eclissa” e noi riusciamo a usarlo quasi automaticamente, senza dedicarvi tutta la nostra attenzione. Per esempio, quando impariamo a guidare un’automobile dobbiamo concentrarci sui vari comandi, oltre che sulla strada, e non siamo in grado di esprimere al massimo l’efficacia del mezzo. Con la pratica, l’automobile diventa più familiare e impariamo a guidarla senza sforzo: inoltre possiamo procedere con maggiore velocità, eseguire manovre millimetriche e parlare col passeggero ascoltando la musica di sottofondo. Guidare diventa una procedura automatica e il mezzo sparisce alla nostra consapevolezza, che ora è libera di rivolgersi ad altri pensieri. Siccome questo processo è molto graduale spesso non ce ne accorgiamo, però se, ad esempio, lo strumento si rompe o perde di colpo la sua efficacia, oppure se cerchiamo di usarlo in maniere non consone, ecco che ritorna ad occupare tutta la nostra attenzione.

Simbiosi uomo-utensile: Cosa accade quando uno strumento sparisce alla consapevolezza? Per comprendere meglio tale fenomeno, conviene adottare la prospettiva della teoria della cognizione distribuita, secondo la quale “la cognizione umana è distribuita tra gli individui e gli artefatti nell’ambiente esterno”79: secondo questa prospettiva, possiamo spiegare meglio l’interazione uomo-utensile adottando un approccio sistemico e prendendo in considerazione non il singolo agente posto di fronte all’artefatto, bensì l’intero sistema cognitivo “composto da un individuo che interagisce con un insieme di strumenti”80. L’abitudine e la perizia con cui maneggiamo un utensile sono strettamente legate all’efficacia dell’azione: infatti, quanto più uno strumento risulta utile, pratico e familiare, tanto più diventa in un certo senso “naturale” e lascia che la nostra mente si concentri sull’obiettivo dell’azione. Ora, il momento in cui lo strumento sparisce alla nostra consapevolezza coincide col momento in cui tra questo e il nostro organismo s’instaura un’armonia cognitiva e motoria. Tale armonia si fissa gradualmente durante il preliminare processo di apprendimento all’uso, periodo in cui l’utensile occupa la piena consapevolezza di chi lo usa. Mano a mano che il nostro sistema nervoso si adatta all’utilizzo di un particolare utensile, quest’ultimo cessa di catalizzare l’attenzione e l’utente diventa libero di svolgere l’attività che si era prefissato. Da questo punto di vista è più facile vedere come tra l’agente e l’utensile si stabilisca una sorta di simbiosi cognitivo-neurale: l’utensile, per poter svolgere adeguatamente la propria funzione, deve essere compreso nel corpo e allo stesso tempo fungere da estensione del corpo dell’agente. O meglio, il sistema nervoso dell’utente deve adattarsi al modo in cui l’utensile dev’essere adoperato affinché quest’ultimo possa ampliare la portata dell’azione. E, viceversa, come le scienze ergonomiche hanno ormai appurato, un utensile è tanto più facile da utilizzare ed efficace quanto più la sua struttura è adeguata al corpo e alla mente di chi deve servirsene. Credo che questo punto sia molto importante per acquisire una visione concreta della relazione agente/utensile e per gettare luce sul modo in cui un qualsiasi oggetto usato come strumento abbia un forte influsso sia sull’agente sia sull’azione.

Effetti della “simbiosi”: L’eclissi dello strumento ha un effetto notevole sul nostro modo di agire. Anzitutto l’abitudine e l’efficacia tendono a rendere l’utensile al contempo ovvio e necessario allo svolgimento della particolare azione per la quale pensiamo di usarlo. A volte basta sapersi ingegnare per sostituire un determinato strumento con un altro funzionalmente equivalente, però di fatto determinate attività non possono essere svolte senza gli strumenti appropriati. Concordo col PCB quando afferma che l’equipaggiamento (in senso lato, ogni mezzo), “modifica e addirittura costringe (binds) l’utente umano, spesso senza che questi ne sia consapevole”81. La costrizione si manifesta in due modi: anzitutto, siccome l’utensile viene creato per uno scopo, la sua efficacia e la sua ergonomia sono già indirizzate in fase di progettazione, cioè tendono a canalizzare la nostra intenzione e la nostra azione nel modo d’uso previsto dal progettista, potenziando da una parte la possibilità di esecuzione, e ostacolando d’altra parte la messa in opera delle attività per le quali non era stato previsto; in secondo luogo, scomparendo alla consapevolezza, l’utensile diventa abituale supporto di quella specifica azione e, quindi, citando le parole di Rousseau “degenera in una vera e propria necessità”82 (un esempio concreto di questo fenomeno è fornito dal modo in cui il telefono cellulare è entrato nelle nostre vite: all’inizio era uno status symbol, un oggetto superfluo per chi non svolgesse un mestiere in cui era molto importante essere sempre rintracciabili, ora invece per quasi chiunque sembra impossibile farne senza). Ancora il PCB:

“Il nostro equipaggiamento (come del resto tutta la tecnologia) non si limita a migliorare il modo in cui facciamo le cose. Al contempo, spesso modifica proprio le cose che facciamo. Cambia le abilità più rilevanti e, di conseguenza, il carattere delle nostre aspirazioni e l’economia delle ricompense sociali. […] A causa delle racchette di grafite, oggi il tennis presenta servizi più rapidi, colpi più potenti e scambi più brevi, e quindi premia giocatori con talenti e condotte diversi rispetto a quelli di appena dieci anni fa. Parimenti, a causa delle armi a mira automatica e degli aerei teleguidati, la guerra oggi richiede un tipo di perizia diversa e più tecnica, e spesso non ha bisogno, e non premia, la forza fisica che invece era necessaria nei combattimenti corpo a corpo. E per via dei computer, è avvantaggiato chi ha un’attitudine mentale per la programmazione; anzi, il modo stesso in cui la gente pensa, parla e scrive è cambiato per adattarsi alle possibilità e alle esigenze dell’epoca digitale.”83

Sorvoliamo per un attimo sulle allusioni negative avanzate dal PCB (e da Rousseau) nei confronti di questo fenomeno. La cosa importante da evidenziare è che il rapporto uomo/tecnologia in senso lato non è di fatto unidirezionale, ma dialettico. Noi usiamo e creiamo nuovi mezzi ma questi restituiscono considerevoli effetti sia sul nostro corpo che sulle nostre abitudini: non a caso l’intera storia dell’umanità è scandita anche dal ritmo di diffusione delle tecnologie (e infatti gli storici dividono le varie età del mondo primitivo in base alle tecniche portanti). Se questo rapporto dialettico è una realtà, allora non è possibile tracciare solchi molto profondi tra i biopotenziamenti e gli strumenti “tradizionali”. È vero infatti che i primi agiscono, per così dire, “a monte” sulle capacità proprie dell’agente, mentre invece altri tipi di utensili mostrano tutta la loro efficacia solo “a valle” durante l’azione diretta, ma questa distanza non implica una differenza sostanziale. Come sostiene Marchesini, il nostro rapporto con la tecnologia è così ancestrale e intimo da far sembrare il termine “simbiosi” solo debolmente metaforico:

Usare uno strumento significa metamorfizzare la performatività del corpo e quindi le caratteristiche del corpo stesso: si modifica la conformazione muscolare dell’individuo e quindi il complesso delle prestazioni motorie; diverse sono le aree talamiche e corticali che vengono enfatizzate e quindi si opera una trasformazione delle competenze cognitive; si realizzano precisi assetti sensoriali per cui possiamo parlare di differenti pertinenze percettive. Il fenotipo viene pertanto plasmato dallo strumento (ossia dall’alterità) che, come vero scultore, estrae dalla virtualità ontogenetica un preciso profilo morfofunzionale. […] A lungo andare la presenza di uno strumento si iscrive anche nel genotipo di una popolazione, ovvero diventa parte integrante dell’istruzione genetica e in questo possiamo dire che lo strumento si incarna.84

La plasticità del cervello è una delle maggiori risorse adattative dell’essere umano. Ma se gli utensili “tradizionali” sortiscono l’effetto descritto da Marchesini, non c’è da stupirsi se alcuni futuristici biopotenziamenti possono dare risultati sensazionali. Ecco una speculazione dei ricercatori M.A.L. Nicolelis della Duke University e M.A. Srinivasan del MIT:

Dato il significativo grado di plasticità documentato persino nel cervello adulto, probabilmente l’uso ripetuto di interfacce dirette uomo/macchina trasformerà il cervello stesso, forse anche in modo più rapido e profondo di quanto sia attualmente possibile con le tradizionali forme di apprendimento. Per esempio, se un robot, sia esso situato localmente o in remoto, è ripetutamente attivato tramite un’interfaccia diretta uomo/macchina, probabilmente emergeranno delle aree corticali specificamente dedicate alla rappresentazione del robot, trasformandolo a tutti gli effetti in un nuovo arto dell’utente.85

Non credo sia eccessivo azzardare una relazione sistematica tra organismo umano e strumenti stipulando un generico

Principio di azione e reazione tecnica: tutti gli strumenti in senso lato, cioè l’insieme degli utensili e delle tecniche, non si limitano a migliorare le nostre prestazioni e ad aumentare le nostre capacità, ma vanno a modificare proprio ciò che facciamo e il modo in cui lo facciamo. Questo vuol dire che la tecnica in generale esercita una forte influenza sul corpo e sull’azione umani. Sul corpo perché, nell’utilizzo, retroagisce sul sistema nervoso, di fatto modificandolo; sull’azione, perché, a parità di scopi, il modo in cui si compie cambia in base al mezzo utilizzato. Tecniche e strumenti determinano le abilità rilevanti e le cose a cui dobbiamo pensare nello svolgimento dell’azione.

C’è una stretta relazione tra equipaggiamento, allenamento e biopotenziamento. Un miglior utensile può migliorare le nostre abilità, o addirittura essere specificamente progettato per allenarle, potenziandole in vista di uno scopo pratico. È pur vero che le tecnologie del biopotenziamento modificano direttamente il corpo dell’agente, ma tutti e tre questi mezzi influiscono sul modo in cui si porta a compimento l’azione e modificano il corpo dell’agente e le sue abilità.

Tutti i mezzi (utensili, allenamento, biopotenziamento), retroagendo sul nostro apparato cognitivo e sul nostro corpo, ci danno esplicitamente la possibilità di cambiare noi stessi attraverso l’attività. Le differenze, per quanto riguarda la modificazione del corpo, sono solo di grado. In tal senso possono anche canalizzare la nostra attenzione, ma questo fenomeno, per quanto sia importante e vada preso in seria considerazione sia in fase di progettazione che di utilizzo, non può essere valutato a priori come negativo, perché è proprio il passaggio necessario per ottenere una maggiore efficacia.

6.3.2 Pregiudizio del conservatore: i metodi naturali sono buoni, quelli artificiali sono cattivi.

Dal punto di vista di un’etica dell’automiglioramento, il bioconservatore può provare a distinguere i metodi per così dire “naturali” rispetto al fine da raggiungere, da quelli invece “artificiali”. In base a tale distinzione potrebbe poi cercare un modo per affermare che i metodi nuovi e più artificiali (cioè i biopotenziamenti) siano peggiori dei mezzi vecchi e naturali. Il modo più banale, ma non così raro, di effettuare una distinzione del genere, fa leva sulla forza della tradizione: siccome le cose si sono sempre fatte così, cambiare sarebbe sbagliato e pericoloso. Per esempio, sarebbe “naturale” volersi migliorare studiando, correggendo la propria alimentazione, allenandosi, praticando la meditazione eccetera, mentre le tecnologie NBIC sarebbero delle diavolerie pericolose che alla fine creano più problemi di quanti ne risolvano.

Ora, è evidente come non sia possibile effettuare una distinzione sostanziale tra metodi nuovi e tradizionali, e che quindi il pretesto del conservatore sia una mera paura del nuovo dettata da un pregiudizio a favore dello status quo. Per questo credo sia opportuno liquidare questi timori senza indugio. Inoltre essi hanno una scarsa forza argomentativa, perché si limitano a soffiare sul fuoco della paura di cambiare, facendo leva sull’angoscia di perdere le certezze acquisite.

Tuttavia, questo punto è di radicale importanza, perché uno degli scopi centrali di questo lavoro è mostrare come proprio i biopotenziamenti potrebbero invece contribuire moltissimo all’autocomprensione umana. E, se abbiamo il socratico dovere di conoscere noi stessi, non dovremmo tirarci indietro. Che cosa possiamo fare in concreto per acquisire e diffondere la sicurezza necessaria? La soluzione contro i conservatori di questo tipo dev’essere pensata a monte, sul piano della progettazione tecnologica e dell’informazione scientifica: solo con la familiarità e l’affidabilità dei nuovi metodi, la paura istintiva del nuovo può affievolirsi e lasciare spazio alla ponderazione razionale.

Ma ci sono altri modi per effettuare una distinzione formale tra i biopotenziamenti e mezzi “tradizionali”: si cerca di cogliere una qualità negativa specifica delle nuove tecnologie, sulla quale poi si fa leva per alzare la critica. Nei seguenti paragrafi cercherò di mostrare come tutte queste distinzioni incorrano in pesanti difficoltà, soprattutto nel dover poi giustificare l’opportunità delle nuove tecnologie in ambito medico.

6.3.3 Dalla non intelligibilità all’alienazione: l’argomento del PCB

Riprendiamo in considerazione il desiderio di un atleta di migliorare la propria prestazione. Davanti al soggetto si pone una scelta di mezzi: può procurarsi un miglior equipaggiamento, può migliorare la prestazione tramite l’allenamento, oppure può modificare direttamente le proprie capacità congenite con qualche biopotenziamento. Che differenza c’è tra questi tre modi di migliorarsi? Abbiamo già visto come non sia possibile affermare che, dato il principio di azione e reazione tecnica, esista una differenza formale tra questi tre mezzi. Forse le differenze possono essere rintracciate sul piano pratico eppure essere rilevanti.

Prima differenza- Irreversibilità: Secondo il PCB la prima distinzione rilevante si può fare tra mezzi “esterni” e mezzi “interni”: da una parte abbiamo gli utensili, che agiscono primariamente sull’ambiente, d’altra parte invece abbiamo quelle tecniche, dall’allenamento all’intervento biotecnico, che modificano direttamente il nostro corpo o la nostra mente. La differenza tra queste due categorie sta appunto nel modo in cui il mezzo modifica l’attività: l’equipaggiamento di un atleta riesce a migliorare la prestazione agendo come estensione del corpo, mentre l’allenamento e il biopotenziamento ottengono lo stesso risultato modificando il corpo stesso. Secondo il PCB, la caratteristica saliente di questa distinzione è l’irreversibilità: strumenti ed equipaggiamento conferiscono un margine reversibile alla nostra prestazione, mentre con l’allenamento e il potenziamento biotecnologico, lo stesso margine diventa irreversibile.

Questa caratteristica ha una rilevanza morale? Credo proprio di no, perché l’irreversibilità del biopotenziamento è un fattore del tutto contingente. Questo fatto molto semplice non viene quasi mai preso in considerazione nel dibattito intorno alla MCT. Con l’evolversi delle potenzialità tecniche, avremo sempre più potere di manipolare il nostro corpo in un verso come in un altro, quindi sarà molto difficile “superare la condizione umana” in modo assolutamente irrevocabile: anche le modifiche più radicali, in futuro potrebbero essere a loro volta rimodificate in caso di bisogno. Inoltre, è vero che l’equipaggiamento “tradizionale” è sempre intercambiabile e revocabile, ma il principio di azione e reazione tecnica rende impossibile essere sicuri del fatto che il ripetuto utilizzo di uno strumento “esterno” non vada a condizionare in modo permanente il nostro apparato cognitivo.

Quindi l’irreversibilità dell’allenamento e del biopotenziamento costituisce una differenza contingente rispetto all’equipaggiamento. Ma continuiamo a seguire il pensiero del PCB e chiediamoci che differenza ci sia tra l’allenamento, inteso come potenziamento naturale, e il biopotenziamento artificiale.

Definizione: l’allenamento implica l’essere in opera del corpo umano, significa migliorare le abilità del corpo in una data azione compiendola ripetutamente e studiando le tecniche migliori per compierla; in tal senso ogni allenamento richiede pratica e sforzo (effort) e fa leva sulla plasmabilità naturale del corpo e del sistema nervoso umani. È importante notare come la plasmabilità naturale abbia dei limiti genetici i quali non possono essere valicati da nessun tipo di allenamento. Inoltre, l’allenamento è un potenziamento conscio e intelligibile, cioè il praticante comprende la connessione tra sforzo e miglioramento, tra attività ed esperienza, tra lavoro e risultato. Questo avviene perché “la capacità da migliorare viene migliorata utilizzandola; l’azione da perfezionare viene perfezionata nell’eseguirla”86.

Seconda  differenza- Intelligibilità: i potenziamenti ottenibili grazie alle tecnologie NBIC sono meno intelligibili di quelli conquistabili tramite l’allenamento; si viene cioè a perdere l’esperienza dell’intervento individuale sul proprio corpo, quell’attività cosciente e autonoma che è l’essenza stessa dell’allenamento.

Conseguenza etica- Alienazione: utilizzando la biotecnologia per ottenere prestazioni superiori si rischia l’alienazione almeno parziale del proprio intervento su se stessi, perché la nostra “identità prende sempre più forma al livello molecolare invece che a quello empirico”87. Questa conseguenza va considerata “a livello dell’esperienza e della comprensione umane”88, non sul piano biologico; dunque secondo il PCB, l’intervento diretto biotecnologico è sempre un potenziamento etero-diretto, anche se il beneficiario lo desidera e ne è cosciente, perché è come se si delegasse totalmente al mezzo il compito di migliorarci, evitando di prendere parte attiva nel processo.

Ma la distinzione tra l’azione migliorativa intelligibile e quella inintelligibile porta a un Dilemma: da una parte molte normali attività della vita trasformano i nostri corpi a prescindere dallo sforzo cosciente, dall’altra dobbiamo ammettere che anche con l’allenamento e le tecniche “tradizionali” il miglioramento avviene a livello “molecolare”, non del tutto presente alla nostra esperienza e spiegabile solo in termini scientifici. Sotto questa luce, la differenza di intelligibilità si rivela essere solo una conseguenza delle conoscenze scientifiche disponibili:

Constatazione- Non siamo totalmente frutto della nostra volontà: secondo il PCB, il fatto stesso che abbiamo un corpo, un organismo le cui attività per lo più trascendono la nostra consapevolezza, implica che la nostra identità non possa essere totalmente dipendente dalla nostra volontà. Per quanto possiamo sforzarci di tenerla sotto controllo o plasmarla a nostro piacimento, l’identità umana resterà sempre legata a un corpo che, già da sempre, segue le cieche leggi della materia organica. Secondo il PCB, questa constatazione basterebbe per sostenere che noi umani “non siamo semplicemente le creature o le persone che noi stessi vogliamo essere”89: ed è proprio questo limite, l’indipendenza del nostro corpo, che ci dischiude molteplici possibilità.

Implicazione: la differenza tra i metodi di potenziamento è solo questione di grado, eppure ciò non toglie che sia una differenza significativa per l’esperienza umana.

Secondo il PCB, usando il biopotenziamento andiamo ad intaccare “la natura dell’opera umana e la dignità insita nell’agire in modo naturalmente umano (naturally human)”90. Il valore viene meno nel momento in cui l’agente diventa oggetto passivo di un potenziamento che viene acquisito senza alcuna connessione significativa e intelligibile tra mezzi e fini. In questo senso la nostra esperienza, spesso già difficile da comprendere, diventa mediata da forze che non hanno alcun legame esistenziale con gli eventi che ci appartengono e sono destinate a rimanere separate dal nostro universo di significato. Questa estraniazione implica una rivalutazione delle nostre azioni in generale:

   * Per ottenere dei risultati personali (cioè dal proprio corpo, dalla propria mente o dal carattere), non è più necessario agire in prima persona direttamente su se stessi, ma si può prendere la scorciatoia dell’intervento biotecnologico.
   * Quando si sceglie l’intervento biotecnologico, si sceglie anche la strada più semplice e si va a scindere il legame d’intelligibilità tra le proprie azioni e i risultati ottenuti: la causa che mi permette di fare ciò che riesco a fare non sono io, ma la tecnologia.
   * Però, il valore dell’attività umana sta non solo nei risultati ottenuti, ma anche nella forza di volontà investita nell’impresa.
   * Con l’intervento biotecnologico applico la mia volontà senza sforzo.
   * Quindi l’attività umana perde valore, perde dignità.

Cosa dobbiamo dedurre da questa linea di pensiero? La constatazione del fatto che non siamo completamente frutto della nostra volontà è comune anche al pensiero transumanista. Ma allora in che senso l’alienazione è negativa? Secondo il PCB i biopotenziamenti sono mezzi sbagliati perché ci permettono di eseguire meglio alcune attività, ma al contempo ce le rendono estranee: alla fine è come se non fossimo stati noi a compierle. Se a ciò si aggiunge che il campo d’applicazione di questo tipo di mezzi è direttamente l’agente stesso, allora si capisce come l’alienazione dell’attività venga percepita allo stesso modo di un’alienazione da se stessi. Non a caso il PCB si chiede:

“a che punto, nella serie di possibili interventi biologici, perdiamo in umanità e identità più di quanto guadagniamo ai fini della nostra prestazione?”91

Quindi, i biopotenziamenti ci rendono estranei al conseguimento dei risultati ed estranei a noi stessi. E per questo sono pericolosi.

Per rispondere a questo argomento bisogna scomporlo e tornare al paragone tra i biopotenziamenti e gli strumenti tradizionali. Per quanto riguarda l’intelligibilità del miglioramento, lo stesso PCB accetta che non sia una differenza sostanziale. Bisogna anche ammettere però che il suo significato dipende in ultima istanza dallo scopo dell’agente: dal punto di vista personale, potrebbe non essere sempre necessario migliorare le proprie prestazioni in modo intelligibile. Anzitutto, proprio come il PCB afferma, l’allenamento ha dei limiti genetici, quantitativi e, soprattutto, strutturali, cioè alcune prestazioni non possono di fatto essere migliorate in questo modo (ad esempio la vista). In secondo luogo, il miglioramento stesso potrebbe non essere lo scopo, ma semplicemente il mezzo, caso in cui la sua intelligibilità andrebbe in secondo piano. Ma a questo punto l’agente dovrebbe indagare soprattutto i propri scopi e valutare se la perdita di intelligibilità sia un costo accettabile, al di là del mezzo impiegato. La metropolitana ci priva l’esperienza del percorso, ma spesso siamo disposti a sacrificare tale piacere pur di raggiungere in minor tempo l’altra parte della città.

Forse col biopotenziamento sacrifichiamo qualche valore in maniera definitiva? Come ho già detto, credo che, col progresso tecnologico, gli interventi sul corpo umano saranno sempre meno “definitivi”. Nel corso degli anni novanta, nel nostro paese ha dilagato la moda estetica del tatuaggio. Una delle critiche più diffuse era “non si può togliere... quando non ti piacerà più lo percepirai come un peso e ti rammaricherai di averlo fatto”. Ma proprio a causa della diffusione di queste pratiche stanno ora nascendo alcune tecniche di rimozione. Da un punto di vista culturale, dovremo adattarci all’idea che la manipolazione del corpo non è in linea di principio definitiva e irreversibile.

Per quanto riguarda invece l’alienazione, il dubbio scompare mostrando come in realtà si tratti di un giano bifronte, un falso problema. Se per un verso posso dire che il biopotenziamento mi estrania dal corpo, per il verso opposto sono costretto ad ammettere che me ne fa assumere un controllo maggiore. Anzi, è proprio l’esigenza di poter controllare quella parte di noi che era in balìa delle leggi naturali, a spingerci verso il biopotenziamento. Senza dubbio il tema della retorica del controllo è centrale nella discussione in corso, ma per quanto riguarda il valore del metodo, in via del tutto generale e a priori non siamo legittimati a giudicarlo come negativo. Ancora, dipende dall’esperienza che l’agente vuole provare.

Per vivere più a lungo occorre anche un’alimentazione sana. Io voglio vivere a lungo ma adoro i cibi grassi. Attualmente, in base a una valutazione razionale, dovrei privarmi del piacere dei cibi grassi per sperare di vivere più a lungo. Supponiamo però che venga creata una sostanza da assumere per via orale capace di eliminare gli effetti negativi dei cibi grassi, magari limitandone l’assimilazione. Ebbene, questo rimedio agisce a livello molecolare e non immediato all’esperienza, cioè non mi impone alcuno sforzo: sul piano privato, posso concludere che è moralmente sbagliato assumerlo perché mi aliena l’esperienza del digiuno o perché mi consente di ingozzarmi senza remore, ma d’altra parte devo anche ammettere che mi rende più libero perché con essa posso soddisfare due desideri prima incompatibili. Devo quindi valutare se per me il digiuno è più importante del desiderio di mangiare cibi saporiti, o se indulgere nella golosità sia un peccato capitale, ma, per l’appunto, la decisione spetta a me, al singolo agente. Insomma, il problema non sta nel metodo, ma nel motivo per cui viene utilizzato.

Un ammonimento molto saggio a riguardo è quello avanzato da R. Cole Turner, Professore Associato di Teologia ed Etica all’Università di Pittsburgh sensibile alle tematiche transumaniste92: i metodi a disposizione per raggiungere uno scopo possono non essere compatibili con i valori individuali dell’agente. I biopotenziamenti, in particolare, vanno impiegati con cautela proprio perché promettono di modificare la vita umana in modo radicale. Queste modifiche, nonostante molte persone le attendano con ansia, per alcuni potrebbero essere indesiderabili. Secondo Cole Turner (e su questo mi trova pienamente d’accordo) il giudizio su quale importanza dare al metodo con cui svolgere un’attività dipende sempre dalla “matrice di valori alla quale una persona aderisce”93: quindi non è possibile stabilire un modo universalmente corretto per impiegare le tecnologie NBIC.

Questo significa né più né meno che le nuove tecnologie per il potenziamento umano dovranno essere progettate e impiegate in modo quanto più possibile personalizzato, senza dare per scontato che i desideri di lunga vita, prestazioni superiori e controllo dell’umore siano uguali per tutti. Ognuno deve poter decidere per sé stesso non solo l’opportunità di un intervento migliorativo sul proprio corpo, ma anche i metodi e le tecniche con cui farlo.

“Se affrontiamo l’uso di queste tecnologie senza un sano rispetto per le differenze che intercorrono tra gli esseri umani a cui vengono applicate, con tutta probabilità nel valutarne le applicazioni commetteremo molti sbagli. [...] la stessa tecnologia applicata a persone diverse con diverse capacità avrà effetti simili ma significativamente diversi, e noi dobbiamo imparare a comprendere il più pienamente possibile le differenze tra le persone e tra i modi in cui la stessa tecnologia le condiziona.”94

Se questo modo contribuisce a determinare il senso stesso dell’attività (come ad esempio nel caso degli sport, in cui non conta solo vincere ma vincere in un certo modo), allora la scelta del mezzo dev’essere regolata non solo dall’efficacia, ma anche da valori non strumentali, quali il sano spirito di competizione, la correttezza, l’equità eccetera. Se invece l’attività è svolta solo e soltanto per ottenere certi risultati, allora non importa come e con quali mezzi la si porta a termine.

Per questa strada la riflessione sul biopotenziamento si rivela a mio parere molto fertile di pensieri. Proprio grazie alle nuove tecnologie infatti, siamo stimolati a ponderare il valore che diamo a molte attività date per scontate e a renderci conto di come lo sviluppo tecnologico in generale possa cambiare, anche in modo radicale, ciò che noi riteniamo importante per la nostra esperienza di vita: quali sono le attività che facciamo esclusivamente in vista di uno scopo e quali quelle a cui attribuiamo un valore proprio per come le svolgiamo? E, nel secondo caso, in base a che cosa attribuiamo questo valore?

L’analisi ci porta dunque alla necessità di una riflessione profonda sulla predominanza della ragione strumentale nel nostro modo di pensare e vedere il mondo; ma non per questo motivo può spingerci ad accusare direttamente un nuovo mezzo solo perché svuoterebbe una certa attività del suo significato. Per quanto questo significato possa essere molto importante, e avere anche una portata collettiva, dobbiamo comunque legittimamente sostenere che siccome mezzi e tecniche diverse rendono diverse le attività queste debbano essere giudicate separatamente.

Concludendo, è vero che le nuove tecnologie di intervento sul corpo umano sono all’atto pratico diverse dalle classiche tecniche di potenziamento, ed è anche vero che questa differenza può essere significativa per l’esperienza del miglioramento: però il giudizio finale sul mezzo da usare può essere dato solo dal singolo agente, che sperimenta su se stesso i nuovi metodi.

6.3.4 L’argomento dello sforzo

Un argomento correlato a quello dell’alienazione sostiene che i biopotenziamenti, diminuendo lo sforzo e la disciplina necessari alla conquista di un miglioramento personale, annullino il valore del conseguimento di risultati. Aumentare le nostre prestazioni con questi nuovi mezzi è quasi come barare, e comunque significa prendere una scorciatoia e ottenere i risultati con facilità: di questo passo, continua la critica, la nostra volontà si affievolisce e perdiamo l’esperienza della realizzazione personale. Insomma, solo col dolore, l’impegno e lo sforzo di volontà i risultati delle nostre azioni acquisiscono un valore; con uno slogan “se tutto fosse facile, tutto diverrebbe insignificante”. Tornando all’esempio di prima, secondo il fautore dello sforzo è molto più meritevole e degno colui che digiuna rispetto a chi prende la scorciatoia delle biotecnologie dietetiche. Messa in termini religiosi: solo attraverso il sacrificio si può ottenere una consacrazione.

A prescindere dai riferimenti culturali, questa obiezione è estremamente debole e per certi versi ingenua. Tutti gli strumenti, tutte le tecniche, servono non solo per migliorare i risultati, ma anche per raggiungerli in maniera più facile. È vero che lo sforzo di volontà conferisce valore, almeno valore personale, a ciò che realizziamo; ma semplicemente, i mezzi, purché impiegati in modo corretto, ci permettono di realizzare di più e meglio. Con l’adozione di un mezzo più efficace si ha solo uno spostamento, una “ricollocazione” dell’impegno come scrive Cole Turner95, non il suo annichilimento. Gli uomini tecnologicamente più progrediti non si sono adagiati sugli allori, bensì sono stati capaci di conseguire maggiori risultati uscendo (e con quale sforzo!) dalle reti della casualità e del cieco fato che attanagliavano le imprese delle società tecnicamente più primitive. È vero che è più facile scrivere la tesi di laurea con il computer piuttosto che con una macchina da scrivere: ma lo sforzo e l’impegno dello scrivere non sono affatto venuti meno. È vero che con internet è molto più facile e comodo ottenere informazioni, ma si tratta di una grande potenzialità non di una scorciatoia. E così anche per i biopotenziamenti: sarà più facile risolvere certi problemi assumendo farmaci per il potenziamento della memoria e della concentrazione, ma questo ci spingerà ad affrontare problemi sempre più difficili che finora reputavamo irrisolvibili. Se qualcuno si adagia nelle paludi dell’accidia non è certamente il mezzo a dover essere colpevolizzato.

Con questo non voglio sostenere che il nuovo sia sempre meglio. La storia della tecnologia è costellata di fallimenti, ma non siamo razionalmente legittimati a liquidare ogni novità solo perché “così è più facile”; piuttosto, siamo, ancora, chiamati a una riflessione sull’opportunità dei nuovi mezzi, sul come e perché possano renderci più facile la vita e su quali possibilità ci schiudano, sulla loro reale efficacia e sul modo corretto di farli entrare nella nostra vita.

6.3.5 I mezzi incarnano dei valori: il meccanicismo lede il concetto di sé, quindi anche quello di responsabilità morale.

Se è vero, come scrive Parens, che “mezzi differenti incarnano e/o esprimono valori differenti”96, allora il biopotenziamento implica in senso lato una concezione meccanicista dell’essere umano. Questa concezione è vista da certuni come problematica perché, se l’uomo è un mero meccanismo, allora diventa alquanto difficile attribuirgli la responsabilità di un’azione. In breve, adottando ad occhi chiusi il riduzionismo meccanicista si annullerebbe lo spazio della morale. La filosofa Carol Freedman solleva a tale proposito un argomento molto arguto contro l’uso degli psicofarmaci e, in generale, tutte le sostanze per la manipolazione dell’umore e delle emozioni97:

   * La concezione che interpreta le emozioni come meri sintomi fisiologici non è dimostrabile per vie scientifiche. La descrizione di uno stato fisiologico e psicologico non comprende infatti il qualia (cioè l’aspetto irriducibilmente qualitativo) dell’emozione stessa.
   * L’emozione non è una mera sensazione, come il dolore. Le emozioni sono modi di credere e interpretare il mondo, che hanno un correlato fisico e vengono percepite in modo viscerale.
   * Nell’attribuire emozioni dobbiamo assumere l’esistenza di un Sé. Condizione necessaria per il Sé, è la considerazione del fatto che alcune azioni e alcuni atteggiamenti siano giustificati da ragioni e non possano essere spiegati solo in termini meccanicisti.
   * La psichiatria ci spinge a interpretare le emozioni solo come sintomi, in termini meccanicisti.
   * Ma la concezione meccanicista mette in pericolo la nostra dignità in quanto persone responsabili. C’è un’inconciliabilità tra descrizione meccanicista e responsabilità morale.

Che conclusioni dobbiamo trarre da questa inconciliabilità? Alcune sostanze possono realmente condizionare le nostre emozioni. Ciò implica una disumanizzazione? Ci riduce a mero meccanismo? Il punto è che, se le nostre emozioni possono di fatto essere manipolate con determinate sostanze, allora non ha senso fare finta di non vedere! Proprio l’esistenza dei biopotenziamenti ci mostra come sia possibile assumere il controllo di molti attributi psicofisici dell’essere umano che prima erano al di fuori della nostra portata. È senza dubbio vero che, per poter sviluppare queste nuove tecnologie, occorre interpretare il nostro corpo e anche le nostre emozioni in termini di causa-effetto. Ma se questa è la realtà effettiva, perché negarla? Dovremmo fare come gli struzzi e mettere la testa sottoterra? L’uso di sostanze psicotrope è antichissimo, e forse solo ora siamo chiamati a una riflessione seria e profonda sul loro significato e sul modo in cui possono condizionare le nostre idee di libertà e responsabilità. Forse, proprio grazie alle nuove tecnologie per il controllo della psiche potremo comprendere i vari fattori che, a cose normali, influiscono sul modo in cui percepiamo la realtà e su come reagiamo agli eventi della nostra vita. Ma ancor più serio e profondo dev’essere lo studio dello iato epistemologico che si è venuto a creare tra l’efficacia di una spiegazione meccanicista dell’organismo e la nostra concezione di essere umano come creatura caratterizzata dal libero arbitrio, a fronte del crescente scetticismo rispetto al principio del dualismo mente/corpo. A tale proposito mi astengo dal giudizio, limitandomi a ribadire la tesi di fondo di questa mia riflessione e cioè che i nuovi mezzi si mostrano ancora una volta utili leve epistemiche, aprono cioè nuove strade alla conoscenza dell’entità più arcana eppure più immediata che si offre alla nostra contemplazione: l’essere umano.  

6.3.6 Mezzi diversi agiscono su oggetti diversi e con il biopotenziamento il soggetto diventa oggetto: la paura del controllo.

Un modo particolarmente rilevante per compiere una distinzione all’interno del complesso strumentale tra potenziamenti tradizionali e biopotenziamenti, è quello che si basa sul campo d’applicazione. La bionanotecnologia, i nootropi, le protesi cibernetiche e molte altre tecnologie NBIC agiscono direttamente sul corpo e sulla psiche umani, cioè sono mezzi il cui campo di applicazione è il soggetto stesso che vuole migliorarsi. Altri tipi di strumenti invece, funzionano come accessori e potenziano le capacità del soggetto senza modificare in modo sostanziale il soggetto stesso.

Ho già detto che questa osservazione non è molto forte, proprio come non lo è la distinzione su cui si basa. Come abbiamo visto infatti, c’è un senso in cui tutti gli strumenti e le tecniche, anche quelli tradizionali, modificano l’agente. Eppure non si può negare che i biopotenziamenti, a differenza di altri tipi di mezzi, siano progettati specificamente per agire sull’organismo. Anzi, credo si possa generalmente affermare che la caratteristica distintiva di questi mezzi sia proprio il loro campo d’applicazione: per biopotenziarsi bisogna concepire il corpo come un oggetto a nostra disposizione. La domanda etica qui assume i toni di un dilemma epocale: l’oggettivazione di se stessi è una perversione o una forma di emancipazione?

Questa alternativa percorre buona parte della storia del pensiero, anzi, come ben scrive Marchesini:

La storia della cultura occidentale può essere interpretata come una lunga dissertazione intorno alla cattività a cui il corpo costringe l’uomo, una vera e propria vessazione che ha nella controparte somatica il massimo imputato di lesa maestà all’espressione del puro spirito, vera essenza dell’umano. […] il corpo è inquisito per aver attentato alle virtù più nobili che albergano nell’animo umano.98

Questo primordiale contrasto nei confronti del proprio corpo (ma per associazione, nella parte somatica della condizione umana sono incluse anche le passioni e gli istinti), questo continuo squilibrio tra lo spirito e la carne che, seppur tematizzato in maniera più radicale in occidente, attraversa molte altre culture e tradizioni, proviene verosimilmente da una discrepanza fisiologica tra la plasticità del sistema nervoso e quella del resto dei tessuti: la ragione e lo spirito progrediscono col passare degli anni, mentre il corpo, raggiunta l’età riproduttiva, lentamente declina fino a diventare una vera e propria prigione per quelle personalità che sentono di avere ancora molto da vivere.

Eppure, secondo molti critici, il controllo totale sul proprio corpo è più di una perversione, una vera e propria tragedia. Quando il PCB ribadisce che non siamo completamente frutto della nostra volontà, è come se volesse fare un’apologia della minorità; sta dicendo “attento uomo, hai ucciso i tuoi idoli e ora stai cercando di sottomettere te stesso alla tua propria volontà, ma questo desiderio d’emancipazione è macchiato dal desiderio di profanazione e dalla brama di controllo, e porterà solo rovina”.

A tale proposito apro una breve parentesi. Quando i bioconservatori evidenziano i possibili danni delle nuove tecnologie e sostengono il dovere di non intraprendere la strada del biopotenziamento, tendono a descrivere lo sviluppo tecnico e scientifico (e per certi versi anche l’applicazione dei suoi risultati) come un processo semi autonomo o comunque fuori controllo. Ai loro occhi, stiamo subendo, un po’ stupiti e presi alla sprovvista, la sinistra e terrificante marcia occulta della tecnoscienza. È come se la conquista del corpo umano stesse avvenendo al di fuori del nostro controllo, o comunque senza il controllo dell’opinione pubblica: chiusi nei loro bianchi laboratori segreti, maligni Dr. Frankenstein, guidati dalla brama di potere, fama e ricchezza, riprogettano la natura umana a nostro discapito. Insomma, si tratta di una prospettiva abbastanza ingenua, che pone gli scienziati al di fuori delle norme sociali ed esagera la separazione tra conoscenza e pratica scientifica da una parte e vita “quotidiana” dall’altra. Eppure non si tratta di un timore completamente infondato, o almeno, forse è solo mal indirizzato. Come ha ben descritto S. S. Hall nel suo libro “I superfarmaci dell’immortalità” (che in lingua originale ha un titolo più esplicativo: Merchants of immortality), l’odierna ricerca scientifica è spesso in balìa dei finanziamenti privati e, essendo sempre più costosa e azzardata rispetto ai risultati, tende a cavalcare l’onda dei “venture capitals” invece di limitarsi ai fondi pubblici. Ma allora il rischio qui non è la ricerca tout court, bensì la mercificazione della ricerca, che è un problema politico. Con un gioco di parole: se temiamo di non avere il controllo delle tecniche di controllo allora è meglio cercare di rendere più democratico l’accesso a queste tecniche. Non ha senso boicottarle in anticipo o sbandierare lo spettro di un golem tecnoscientifico ormai autonomo e devastante.

Tornando al dilemma di cui sopra, bisogna notare che i biopotenziamenti non sono gli unici mezzi per agire su noi stessi. Esistono molteplici tecniche con lo stesso campo di applicazione, basta pensare alla medicina tradizionale. Dovremmo forse concludere che la medicina è sbagliata perché agisce direttamente sul corpo e la psiche umani? Anche sostenere questa tesi, magari unita al corollario per cui si tratterebbe di un peccato a fin di bene (la guarigione), sembra poco convincente: il bioconservatore dovrebbe comunque indicare il vero motivo per cui aumentare il controllo su se stessi sia sbagliato. Dovrebbe cioè sollevare un argomento che sostenga la necessità di porre un limite al miglioramento personale; chi voglia condannare i biopotenziamenti solo sulla base del loro campo d’applicazione, è quindi costretto a far leva su un’obiezione di principio molto più generale e sostenere che sia sempre sbagliato manipolare il corpo e la psiche umani oltre certi limiti perché sono doni che noi abbiamo ricevuto e che dobbiamo rispettare. Su questa tematica mi dilungherò nel capitolo 10.

Comunque, riflettere sulla possibilità di manipolare direttamente il proprio corpo e la propria psiche ci permette di raggiungere una questione fondamentale dell’intera problematica sollevata dalla MCT. Proprio grazie ai biopotenziamenti infatti ora siamo più consci della nostra potenziale plasticità, e addirittura, la nanotecnologia e le interfacce dirette uomo/macchina promettono di spezzare i limiti genetici all’adattamento individuale disponendo il nostro organismo a una libertà di manipolazione prima impensabile. Si apre una grande possibilità, ma anche un profondo dubbio: in quale direzione dobbiamo indirizzare il miglioramento? Dobbiamo agire in modo collettivo o lasciare ad ognuno ampia autonomia? Dobbiamo adattarci all’ambiente che ci circonda oppure seguire un ideale di perfezione? Queste domande esulano dal problema sui mezzi e riguardano direttamente lo scopo da conseguire. La tratterò quindi nelle sezioni seguenti.

Tornando al nucleo della critica in questione, io credo che le cause dello sdegno nei confronti della manipolazione del corpo siano sostanzialmente due: la paura per la responsabilità derivante dal dover controllare uno spettro più ampio di facoltà umane, e la profonda sfiducia nell’umanità, dettata soprattutto dalle pratiche di controllo autoritario esercitate da molti governi nel corso del xx secolo. Questi due sentimenti sono più che legittimi, e ancor prima di indagare la direzione in cui muoversi per superare la condizione umana, chi vuole sostenere la MCT deve compiere due mosse molto importanti. Innanzitutto bisogna sviluppare un sistema per assicurare una gradualità nell’intervento tecnologico, senza prospettare schizofrenici stravolgimenti epocali, e stabilire le basi morali e giuridiche per l’imputabilità dell’azione tecnologica. In secondo luogo, bisogna insistere sull’autonomia personale come valore insindacabile intorno al quale deve ruotare l’istanza del postumano. Istanza che si fa sempre più pressante e ineludibile man mano che proprio il nostro agire tecnoscientifico ci pone davanti agli occhi, ogni giorno con più clamore e meraviglia, la profonda lacerazione in cui ci ritroviamo già da moltissimo tempo. Come scrive Longo

“da una parte si vorrebbe «migliorare» il mondo e l’uomo nel mondo tramite una progettazione razionale e finalistica […] dall’altra si vorrebbe conservare il patrimonio ereditario di sentimenti, emozioni e capacità che l’uomo com’è oggi custodisce in sé e che sente profondamente connaturato”99

Questa lacerazione è solo apparentemente paradossale. A mio modo di vedere, scaturisce da un fatto tanto semplice quanto fastidioso: l’uomo non sa ancora rispondere alla domanda esistenziale, e ogni volta che crede di aver raggiunto qualche certezza sulla propria condizione, subito una nuova scoperta o un nuovo traguardo del pensiero sono lì a smentirlo. Fino ad oggi il nostro corpo, per quanto interpretato come una sgradevole gabbia, era un dato, una certezza; con le tecnologie NBIC invece diventa un’opzione. E allora è normale sentirsi disorientati e reagire con un atteggiamento di paura conservatrice.

Secondo J. Hughes, direttore della World Transhumanist Association, i bioconservatori hanno la paura, di matrice puritana, che il controllo sul corpo umano possa facilitare il peccato100. Ma si tratta di una paura infondata, come spiega lo stesso Hughes in un esempio molto significativo, circa la crescente incidenza dell’obesità nei paesi ricchi. Secondo una diffusa opinione, le cause dell’obesità sono fondamentalmente tre: gli alimenti grassi (resi ancora più grassi dalle tecnologie alimentari che permettono di concentrare in piccole barrette enormi quantità di calorie), le industrie alimentari (che hanno tutto l’interesse a promuovere il consumo dei loro prodotti e per farlo li rendono più saporiti e grassi), la sedentarietà della società contemporanea (nella quale l’attività fisica è relegata al tempo libero). Ma questo vuol dire accettare e, sottilmente, giustificare la minorità decisionale dei cittadini occidentali: la spiegazione più plausibile dell’obesità invece, è che l’essere umano si sia evoluto con un metabolismo adatto a camminare quotidianamente ore e ore nella savana, e con un sistema nervoso adatto ad accumulare quanti più zuccheri possibile. Il problema quindi sta, come ho già fatto notare, nella relazione di adattamento con l’ambiente e nella volontà delle singole persone. Da una parte l’Homo sapiens è adatto ad un ambiente che non esiste più, d’altra parte questo cambiamento è imputabile solo e soltanto a lui stesso, e non credo di sbalordire se sostengo che l’uscita da questa impasse si può trovare solo scavando in noi stessi, conoscendo meglio l’animale/uomo.

Su questo punto sarebbe interessante procedere con la riflessione e indagare l’ironia di fondo della situazione in cui ci troviamo, senza falsi allarmismi e paure ingiustificate. Fermo restando il dilemma morale per cui siamo chiamati a scegliere se adattare noi all’ambiente o adattare l’ambiente alle nostre esigenze, la beffa sta nel considerare come sia stato proprio l’uomo la principale causa di questa inadeguatezza, di questa obsolescenza. L’ambiente contemporaneo è infatti ormai quasi del tutto artificiale e sociale: non esiste più niente di naturale, nel senso che nella quotidianità dei centri urbani industrializzati lo spazio di ciò che non è soggetto, programmato e costruito dall’uomo è diventato irrisorio. Nell’ambiente urbano l’uomo ha sublimato le paure tipiche dell’ambiente naturale, nel quale invece resta in balia di forze immense e inesplicabili; ma questa nuova sicurezza ora sta mettendo in mostra la sua interna contraddizione perché stiamo assistendo alla “lenta ma inesorabile repulsione di qualsiasi forma di funzione organica”101, processo che ci sta conducendo a un profondo disagio nei confronti del nostro corpo, l’unico, enorme e ineludibile, “pezzo di natura” che determina ancora la nostra vita. E se è vero che dovremmo abbandonare la metafisica dualista e renderci pienamente conto che noi siamo anche il nostro corpo, allora la contraddizione si fa lampante: trovandoci a disagio in natura, abbiamo applicato la tecnica per adattare l’ambiente alle nostre esigenze, ma ora questo ambiente rigetta il corpo umano come inadeguato. Le parole di Marchesini in proposito sono illuminanti:

“l’uomo inizia a chiedere al corpo la stessa versatilità [delle macchine], desidera poter accendere o spegnere il corpo operando su particolari interruttori e vorrebbe modulare il livello di funzione a seconda delle specifiche necessità.”102

Secondo me, ormai è inutile ritrarsi o fare smorfie di sdegno. Il corpo umano è tecnologico e non è possibile, né avrebbe molto senso, tornare indietro. Ma, se la nostra libertà non può più stabilire il se, ha ancora il diritto/dovere di decidere il come di questo cambiamento. Ed è qui che si installa tutto il dibattito sulla MCT.

“La storia dell’uomo è, tra le molte altre cose, la storia di una progressiva artificializzazione del corpo, la storia di una lunga marcia verso un sempre maggiore arricchimento strumentale nel nostro rapporto con la realtà”103

Se il corpo umano diventa oggetto della tecnica, noi diventiamo soggetti tecnici. La simbiosi uomo/utensile si svela e noi siamo chiamati ad accoglierla nella sua più grande possibilità, quella conoscitiva.

“Ora sembra che dobbiamo prepararci a una fase in cui la tecnologia sta già da sempre nel corpo e nella mente. Il corpo è conosciuto, controllato, e manipolato tendenzialmente senza residui e fa tutt’uno con gli apparati tecnologici.... Il nostro corpo e la nostra mente sono oggetti tecnologici, artefatti come gli altri.”104

Se il superamento della condizione umana passa attraverso l’artificializzazione del corpo e della mente, cioè in buona sostanza di noi stessi, la paura del controllo deve risolversi nella responsabilità di assumersi il carico morale della propria identità.  

6.4 Conclusioni

Dobbiamo prendere in seria considerazione le tecnologie NBIC per il potenziamento umano in quanto esse modificano il campo di applicazione e gli effetti delle nostre azioni, ma in ultima istanza il giudizio morale deve sempre focalizzarsi sulle motivazioni e sulle conseguenze delle stesse. I nuovi mezzi per il biopotenziamento servono anzi da leva epistemica, cioè portano alla luce delle eventualità che prima erano soltanto immaginabili e ci aiutano a comprendere meglio il mondo e noi stessi. Di conseguenza possono anche aiutarci ad operare una rivalutazione di certi principi morali e di certi atteggiamenti fondati su giudizi falsi o sommari. Forse è proprio seguendo la strada del postumano che potremmo capire meglio chi siamo.

A questo punto però si aprono alla riflessione due percorsi, due grosse linee argomentative sulle quali può muoversi la critica conservatrice per suffragare la necessità di arrestare e abbandonare la via del biopotenziamento. Da una parte, c’è l’analisi delle motivazioni, gli scopi che dobbiamo prefiggerci nell’applicare le nuove tecnologie: quindi, fino a che punto il potenziamento è un miglioramento? Questo tipo di dubbio porta a formulare delle obiezioni di principio, secondo le quali c’è un senso in cui il miglioramento personale oltre certi limiti è sbagliato e non va perseguito.

D’altro canto, si apre il dibattito sulla futurologia, intesa come analisi e valutazione delle conseguenze sul mondo e sulla società dell’uso di massa dei biopotenziamenti. Le obiezioni che sorgono da questo tipo di disamine sono tutte di carattere prudenziale, cioè non mettono in discussione gli scopi di miglioramento, ma si limitano ad avvertire circa i potenziali rischi creati dalle nuove tecnologie e dal loro uso.

Credo sia senz’altro possibile concludere che questi nuovi strumenti non pongano problemi morali nuovi. Il desiderio di superare la condizione umana è una questione di ordine morale di vecchia data, solo che finora, data la sua impraticabilità di fatto, era rimasta sopita. Pertanto, la valutazione etica dei potenziamenti biotecnologici non dipenderà in ultima istanza dalla loro parvenza di unicità e novità. Anzi, e qui lo stesso PCB concorda, proprio grazie all’enorme potenziale messo a disposizione dalle nuove tecnologie, potremo renderci conto in maniera più chiara delle implicazioni che ogni tipo di potenziamento potrà avere sulla “dignità” delle aspirazioni e delle attività umane. Liquidati questi due doverosi argomenti preliminari, possiamo senz’altro passare alla disamina delle varie obiezioni di principio mosse in ambito bioconservatore contro i desideri di prestazioni superiori, lunga vita e manipolazione dell’umore.

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Sezione Prima: Panoramiche

Sezione Terza: Obiezioni di Principio



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