Università degli Studi di Pisa
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Anno Accademico 2005-2006

Vincenzo Russo

Più che Umani

La Bioetica filosofica e le tecnologie del potenziamento psicofisico


Relatore: Prof. Sergio Bartolommei

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Sezione Prima: Panoramiche
Sezione Seconda: Due argomenti preliminari
Sezione Terza: Obiezioni di principio
Sezione Quarta: Obiezioni di prudenza

Introduzione

1.1 La convergenza tecnologica e le possibilità di migliorare la condizione umana

“Siamo alla soglia di un nuovo rinascimento scientifico e tecnologico, basato sulla completa comprensione della struttura e del comportamento della materia, a partire dalla nanoscala fino al sistema più complesso mai scoperto, il cervello umano.”1

Con queste parole si apre il rapporto relativo a una conferenza commissionata nel 2001 dalla National Science Foundation (NSF) e dal Department of Commerce (DOC) degli Stati Uniti e redatto da più di cinquanta tra scienziati, ingegneri, ricercatori accademici ed esperti di tecnologia provenienti dal mondo degli affari. Lo scopo della NSF e del DOC era indagare le possibilità che la convergenza tra vari settori della ricerca scientifica e tecnologica schiuderà nell’ambito del miglioramento delle prestazioni umane. Poche righe più in là, il rapporto continua:

“Con un’appropriata attenzione ai temi etici e alle esigenze sociali, il risultato può essere un drastico miglioramento in vari settori: abilità umane, nuove industrie e prodotti, risvolti sociali e qualità della vita.”2 La conferenza ebbe tanto successo da essere replicata nel 2003, nel 2004 e nel 2005. Del 2004 è il rapporto della Science and Technology Foresight Unit dell’Unione Europea, intitolato “Converging Technologies – Shaping the Future of European Societies”3, che pone più marcatamente l’attenzione sulle problematiche umane e sociali sollevate dal futuro prossimo della ricerca scientifica e tecnologica. Non a caso anche l’interesse dei partecipanti alle conferenze statunitensi si è gradualmente spostato: oggi non ci si chiede più se le prospettive visionarie aperte dalle nuove tecnologie avranno impatti sociali, perché urge prevedere come e quando la convergenza tecnologica in atto produrrà risultati drastici sul nostro modo di vivere e di relazionarci, sia con noi stessi che con gli altri.

Si parla di “convergenza tecnologica” perché gli strumenti che ci stanno aprendo la concreta possibilità di cambiare radicalmente la condizione umana nel prossimo futuro sono il frutto di una sinergia tra diversi ambiti di ricerca. Non a caso, nanoscienza e nanotecnologia, biotecnologia e biomedicina (inclusa l’ingegneria genetica), tecnologie dell’informazione (incluse intelligenza artificiale e tecnologie per la comunicazione) e scienze cognitive (soprattutto la neuroscienza cognitiva) stanno abbandonando la provincia della ricerca scientifica in cui sono rimaste relegate fino a oggi per avvicinarsi sempre più al centro dell’attenzione pubblica, governativa e commerciale delle nazioni più ricche. La piattaforma comune che renderà possibile questa convergenza è data dalla struttura stessa della materia, sulla quale dovrà fondarsi una visione olistica della conoscenza scientifica. Secondo Roco e Bainbridge della NSF4, grazie a quattro punti chiave nel corso dei prossimi vent’anni si aprirà la possibilità di unificare gran parte delle scienze:

    L’origine della convergenza sarà al livello della nanoscala, cioè dipenderà dallo studio dei fenomeni che interessano la materia su una scala dell’ordine di un milionesimo di millimetro: sostanzialmente, la scienza arriverà ben presto a comprendere non solo il modo in cui gli atomi si combinano in molecole, ma anche le leggi che regolano l’aggregazione molecolare in strutture polimeriche. Questa conoscenza consentirà di manipolare la materia a livello della nanoscala, cioè letteralmente di costruire molecole artificiali ad hoc con le funzioni più svariate.

    Il catalizzatore della convergenza sarà il susseguente salto tecnologico consentito dalla manipolazione della materia sulla nanoscala. Saranno disponibili nuovi strumenti scientifici e innovative metodologie analitiche che consentiranno la riduzione epistemologica di molte discipline ancora oggi separate.

    La conseguenza immediata di questa “rivoluzione” sarà una nuova comprensione del mondo in termini di sistemi gerarchici a complessità crescente. Dalla fisica degli atomi alla biologia molecolare, alla meccanica dei materiali fino alla biologia e alle scienze cognitive. Questa unificazione del sapere non avverrà esclusivamente dal basso all’alto, perché dovrà avvalersi di tutti i sostanziali sviluppi delle quattro aree di ricerca summenzionate.

    Il risultato più grande della convergenza tecnologica sarà la concreta possibilità di soddisfare alcuni dei sogni più antichi dell’umanità e migliorare le condizioni di vita di tutti: grazie alle nuove tecnologie, l’uomo potrà potenziare le proprie capacità psichiche, fisiche e sociali, in modo tale da vincere (secondo le previsioni più ottimistiche) le sfide poste dai conflitti politici ed economici che macchiano fin dall’alba dei tempi la nostra storia.

È per questo che, secondo l’ottimismo dei ricercatori statunitensi, dobbiamo recuperare lo spirito del Rinascimento, abbandonando i vari specialismi per adottare una prospettiva globale sulla conoscenza scientifica del mondo. La fiducia progressista che si respira leggendo i rapporti stilati dopo le varie conferenze sulla convergenza tecnologica ha fondamentalmente due motivazioni: da una parte c’è la consapevolezza che la fusione dei campi del sapere scientifico provocherà un enorme balzo in avanti della nostra conoscenza del mondo; dall’altra c’è il sogno di applicare le nuove tecnologie per promuovere il progresso dell’umanità intera, risolvendo alcuni dei problemi più urgenti della nostra epoca. Questa speranza poggia su una convinzione ben precisa, e cioè che solo un livello tecnologico più avanzato potrà fruttare una “prosperità per tutti” senza esaurire le risorse naturali e mettere in crisi l’ecosistema. Ma ciò implica l’assunzione di un substrato utopistico, un ottimismo che, per quanto sempre benvenuto (e a volte necessario) quando si parla di ricerca scientifica e tecnologica, rischia di assumere connotazioni ideologiche che impediscono di conferire il giusto peso al “fattore umano” del progresso: la tecnologia in sé non potrà darci la salvezza, perché molto dipenderà dalle nostre scelte, non solo in quanto singoli, ma soprattutto in quanto collettività.

È da qui che prende le mosse la mia ricerca, dalla convinzione che non sia oggi possibile interpretare il progresso tecnico come un indubbio miglioramento della qualità della vita umana. Anzitutto, il concetto stesso di “miglioramento” è generico e problematico, e certamente dipende dal modo in cui concepiamo le nostre condizioni di vita e dalle nostre speranze, quindi sarebbe un errore non tematizzarlo: il desiderio di migliorare la condizione umana, per quanto universale nella sua astrattezza, è di fatto concretizzato in molteplici forme, e non è possibile trascurare le differenze di opinioni a riguardo. In secondo luogo, il nuovo progresso annunciato dalla convergenza tecnologica è in qualche modo diverso rispetto al passato: oggi non si tratta più di adattare l’ambiente alle nostre necessità, né di estendere la portata del nostro agire mediante utensili più efficaci, ma di intervenire direttamente sul corpo e sulla psiche umani col fine di migliorarli. Questo significa incrementare la qualità della vita umana modificando, anche in maniera drastica, l’uomo stesso con la speranza di realizzare alcuni dei nostri sogni più ancestrali: avere prestazioni fisiche e mentali superiori, prolungare l’arco della vita, eliminare le sofferenze emotive.

Ecco allora che l’entusiasmo conoscitivo (la partita della convergenza tecnologica si gioca per accrescere il bagaglio di conoscenze sul funzionamento del corpo e della mente umani) deve sposare la prudenza riflessiva, e le visioni escatologiche di un paradiso in terra tecnomediato devono confrontarsi con l’esigenza di agire in modo moralmente corretto. Credo sia dunque quantomeno opportuno riflettere sulle implicazioni morali del progresso tecnologico, coltivando la speranza di poter giungere se non a delineare delle linee di condotta stabili, quantomeno a far luce sulla controversia che ruota attorno all’applicazione di tale convergenza: se essa frutterà davvero i risultati previsti sarà solo merito delle persone che avranno agito in modo eticamente avvertito. Il presente lavoro, come ogni testo di filosofia, prende allora le mosse da una serie di domande: com’è possibile migliorare la condizione umana grazie allo sviluppo tecnico? Quali sono le tecnologie che promettono di soddisfare i nostri desideri più ancestrali? E cosa significa migliorare la condizione umana? In che senso dovremmo operare questo miglioramento?

1.2 La scelta del problema etico: il biopotenziamento personale

Le prospettive su cui riflettere sono molteplici e non è possibile affrontarle nello spazio di una tesi di laurea. Ai fini della presente trattazione voglio restringere l’ambito del discorso agli aspetti bioetici del potenziamento del corpo umano tramite le nuove tecnologie.

Definizione di Biopotenziamento: In generale utilizzerò il termine “biopotenziamento” per indicare tutta quella classe d’interventi tecnici guidata dalla volontà di (1) potenziare le prestazioni psicofisiche di un individuo, (2) prolungare la vita contrastando le cause dell’invecchiamento, (3) modificare il proprio stato d’animo a piacimento. Il biopotenziamento è un uso deliberato delle tecnologie volto a ottenere un aumento delle capacità umane e del funzionamento del corpo umano agendo direttamente su di esso, e include anche la possibilità di intervenire per creare capacità finora sconosciute.

Parliamo dunque di tecniche di manipolazione del corpo umano e della personalità umana. Ora, l’uso di una tecnica implica l’esistenza di un agente, di un mezzo e di un oggetto, quindi dobbiamo porci tre domande preliminari. Chi è l’agente? Quali sono le tecniche utilizzate? Su chi/cosa si effettua la manipolazione? Per quanto riguarda le tecniche utilizzate, l’attenzione ricade su quelle che, attualmente o nell’immediato futuro, ci permettono di aumentare le nostre capacità naturali per soddisfare tre desideri: lunga vita, prestazioni superiori e felicità. Il prossimo capitolo consiste in una panoramica di tutte le recenti scoperte tecniche e scientifiche rilevanti.

Per quanto riguarda invece il soggetto agente e l’oggetto su cui si agisce, restringo ancora l’ambito del discorso al caso in cui il biopotenziamento sia un atto di auto-miglioramento, cioè l’espressione libera di una persona adulta che decide di usare le nuove tecnologie per aumentare le proprie capacità, prolungare la propria vita, manipolare il proprio umore. Quali sono i valori tirati in ballo da interventi di questo tipo? È possibile sollevare un’obiezione decisiva contro queste pratiche oppure dovremmo concludere che ognuno è proprietario di sé e del proprio corpo e quindi ha il diritto di manipolarsi come meglio crede?

1.2.1 Esclusione dell’eugenetica

Per “ingegneria genetica” bisogna intendere tutto quel complesso di tecniche che consente di modificare e manipolare il patrimonio genetico degli organismi biologici. Quando questa tecnica viene applicata per scopi di miglioramento, porta alle estreme conseguenze l’addomesticamento del corpo umano e presenta risvolti filosofici molto interessanti. Tuttavia, in questa sede ho deciso di non occuparmi dei problemi etici che accompagnano l’uso radicale dell’ingegneria genetica, quello che andrebbe a soddisfare il desiderio di biopotenziare un nascituro: l’intervento sul patrimonio genetico di una terza persona, per quanto sia il proprio figlio, merita una discussione a parte, sia per l’estensione della problematica correlata, sia perché coinvolge un’altra classe di dilemmi morali, pertinenti i diritti e i doveri dei genitori, e il valore morale delle generazioni future. Limito il mio discorso al singolo individuo, cittadino adulto e autonomo di una società di diritto, il quale desideri biopotenziare se stesso5.

Sezione Prima: Panoramiche

Capitolo 2. Nano-Bio-Info-Cogno: Tecnologie Convergenti per il Potenziamento Umano

2.1 La convergenza

Il miglioramento della condizione umana sarà possibile grazie alla convergenza tecnologica di alcune aree di ricerca che fino ad oggi si sono sviluppate in relativa indipendenza. Gli ambiti di indagine che promettono i maggiori risultati sono quattro:

Nanotecnologia6: L’unità fondamentale di tutti gli esseri viventi è la cellula, un organismo capace di vita autonoma composto grosso modo da una membrana che contiene il citoplasma e un nucleo. Il citoplasma è un liquido in cui si svolgono tutte le attività vitali della cellula, soprattutto grazie a determinate macchine molecolari. Queste sono delle strutture proteiche, ovvero degli agglomerati di molecole a base di carbonio molto complessi e capaci di svolgere determinate funzioni. In generale, gran parte delle proprietà della materia dipende dal modo in cui le molecole interagiscono tra loro, e in particolare la vita si basa sul corretto funzionamento di svariate macchine molecolari. Il nucleo di una cellula protegge il DNA, una molecola molto lunga e complessa che nella sua passività svolge una funzione essenziale: è capace di dirigere delle macchine molecolari molto importanti, chiamate “ribosomi”. Nel nucleo, le DNA polimerasi (altre macchine molecolari) leggono settori di DNA e lo riproducono (usando le molecole di base presenti nella cellula) in nastri di RNA messaggero. Ora, proprio come dei computer che, leggendo un programma, riescono a svolgerne le istruzioni, i ribosomi “elaborano” le informazioni presenti sui nastri di RNA e creano le proteine, i “mattoni” con i quali è costruito tutto il regno vivente. Ecco, i ribosomi sono la prova inconfutabile che delle macchine molecolari possono essere programmate per costruire molecole complesse: essi sono delle vere e proprie “nanomacchine” che, in base alle leggi della natura, assemblano singole molecole in strutture più grandi capaci a loro volta di svolgere le funzioni più disparate. Ora immaginiamo di poter assemblare e programmare a nostro piacimento delle nanomacchine artificiali, capaci di svolgere funzioni specifiche: sarebbe possibile creare proteine di forma e caratteristiche innovative, e sviluppare una sorta di “ingegneria molecolare” capace di migliorare in modo decisivo tutta una serie di processi biochimici, rivoluzionando la chimica industriale. Ma non è difficile immaginare che a questa nanotecnologia di prima generazione seguirebbe ben presto una scienza molto più potente. Nulla impedisce infatti che, una volta padroneggiato il meccanismo di creazione, si possa passare ad assemblare molecole progettate ad hoc per funzionare come componenti meccanici, e costruire nanomacchine sempre più complesse. Si potrebbero sviluppare degli enzimi che assemblano strutture ben precise di atomi, in modo tale da trasformare gli elementi puri in tutte le sostanze che conosciamo (potremmo ad esempio trasformare il carbone in diamante): per questa via la biologia molecolare si convertirebbe in una vera e propria “nanoingegneria”, un complesso di tecniche atte a manipolare la materia con i più disparati “nanostrumenti”. E a quel punto, solo la fantasia umana e le leggi della natura potranno porre un limite alle possibilità.

Biotecnologia: Per “biotecnologia” bisogna intendere un intero complesso di scienze e tecniche unite sostanzialmente dal loro campo operativo, e cioè gli organismi viventi. Rientrano in questa sfera la biologia molecolare, la neurobiologia, l’ingegneria genetica, la biomedicina, la farmacologia, insomma tutte quelle conoscenze e quelle tecniche capaci di alterare e controllare il fenomeno della vita.

Tecnologia dell’Informazione: In questa sfera rientrano l’informatica, le scienze della comunicazione, l’elettronica e la robotica. Quest’ultima area di ricerca tecnologica è il frutto di una convergenza tra elettronica, meccanica, informatica e, negli ultimi tempi, intelligenza artificiale.

Scienze e Neuroscienze Cognitive: Le discipline che studiano la mente e i processi cognitivi, sia di basso (percezione, azione volontaria) che di alto livello (ragionamento, espressione simbolica). Le scienze cognitive rappresentano esse stesse un ottimo esempio di come vari ambiti di ricerca caratterizzati da approcci e metodologie diverse, possano convergere verso uno scopo condiviso. Sfruttando l’analogia tra la mente umana e i programmi per calcolatori, vari studiosi di filosofia della mente, psicologia, linguistica, intelligenza artificiale e neuroscienze cognitive, seguono fin dagli anni ’50 del secolo scorso un programma di ricerca che in seguito si è concretizzato attorno alla teoria funzionalista della mente. Secondo questa teoria, i processi cognitivi stanno al cervello come il software informatico sta all’hardware elettronico di un calcolatore. Ciò implica che i processi mentali, anche quelli più elevati quali la coscienza, non dipendono dal supporto materiale che li implementa, ma esistono solo in quanto esercitano un ruolo causale. Data la possibilità di implementare, grazie a un programma, molti processi di ragionamento logico/ algebrico su un calcolatore elettronico, le scienze cognitive non fanno differenza tra i risultati ottenibili dalla programmazione e quelli di una mente umana, e conferiscono pertanto legittimità alla simulazione su calcolatore come terreno per la sperimentazione di ipotesi sul funzionamento della mente. L’esempio emblematico di un ragionamento funzionalista (o meglio protofunzionalista) è lo storico “gioco dell’imitazione”, un esperimento mentale di grande rilevanza euristica ideato dal matematico inglese Alan Turing proprio nel 1950. Secondo il cosiddetto test di Turing, una macchina può dirsi pensante se è possibile programmarla in modo che riesca a sostenere una conversazione così bene da risultare indistinguibile da un interlocutore umano.

Ora, la convergenza “NBIC” (acronimo inglese di Nanotechnology- Biotechnology- Information technology- Cognitive sciences) sarà possibile quando la nanotecnologia riuscirà a manipolare la materia molecolare e a gestire i processi che avvengono in una scala tra 1 e 100 nanometri7. Non a caso “molti dei progressi più rilevanti in biotecnologia e biomedicina stanno avvenendo proprio al livello della nanoscala”8 e, ovviamente, né la nanotecnologia né la biotecnologia possono fare molto senza i più avanzati sistemi di elaborazione dati e di micromanipolazione elettronica. Attualmente, le tecnologie informatiche stanno studiando nuovi metodi di miniaturizzazione, e non è azzardato presumere che ben presto sarà possibile costruire e programmare dei nanotransistori. Il difficile qui è immaginare cosa non sarà possibile fare, a livello computazionale, con dei calcolatori costruiti con miliardi di questi nanotransistori, e magari basati su un’architettura a rete neurale (cioè in modo tale da imitare il funzionamento del cervello ed elaborare più di una serie di calcoli in parallelo). Forse le scienze cognitive saranno le ultime a mettersi in sinergia con le altre, ma di certo rappresentano l’ambito di ricerca che promette i maggiori risultati per quanto riguarda il potenziamento delle prestazioni umane: grazie alle nuove tecniche d’indagine messe a disposizione dalla nanotecnologia e dalle tecnologie informatiche, sarà possibile non solo autoalimentare il progresso scientifico, ma anche, sempre che l’approccio teorico sia quello giusto, raggiungere la completa conoscenza del funzionamento del cervello e della mente, e l’abilità di costruire agenti intelligenti che possano aiutare l’umanità svolgendo i compiti più pericolosi o faticosi. Sviluppando ambiti di ricerca “di confine” tra scienze umane, ergonomia e design quali l’interazione uomo/macchina sarà possibile implementare l’informatica e la nanoelettronica per creare interfacce neurali e connettere direttamente il sistema nervoso umano alle macchine.

2.2 Tecnologie per migliorare le prestazioni psicofisiche

Le conseguenze più immediate della convergenza NBIC si avvertiranno probabilmente nel campo delle capacità individuali e collettive. Questa previsione è motivata da due osservazioni: in primo luogo, in ogni epoca conosciuta sono esistite persone attivamente impegnate nel migliorare il proprio corpo, sia imparando e perfezionando determinate attitudini con l’allenamento, sia ricercando tecniche e procedure per ottenere dei risultati migliori in particolari attività, e i nostri tempi non fanno eccezione; in secondo luogo, una buona metà della ricerca tecnologica e scientifica dedicata espressamente allo sviluppo di nuovi metodi e nuovi strumenti per potenziare e ampliare lo spettro delle capacità umane è di stampo militare, ed è noto che, quando si tratta della sicurezza nazionale, nessuno stato bada a spese. Inoltre, come la storia della tecnologia insegna (basta prendere in considerazione l’esempio di internet), le scoperte militari incontrano spesso ottime applicazioni in ambito civile, quindi possiamo tranquillamente presumere che anche per la convergenza NBIC accadrà lo stesso.

Dunque, in che modo è possibile sfruttare le nuove tecnologie per migliorare la capacità individuali? Le strade relativamente più semplici passano attraverso lo studio e il potenziamento delle caratteristiche naturali, ma non è difficile teorizzare percorsi alternativi e ben più radicali, quali l’innesto di protesi cibernetiche o la possibilità di interfacciarsi direttamente con dei sistemi intelligenti. A un livello ancora più profondo, soprattutto grazie ai risultati che la convergenza promette di fornire in ambito biotecnologico, non sembra impossibile alterare il patrimonio genetico di un individuo affinché sviluppi capacità del tutto nuove. Vediamo alcuni esempi.

2.2.1 Il potenziamento di capacità prevalentemente somatiche

Il sistema muscolo-scheletrico conferisce struttura al corpo e svolge un ruolo essenziale nella vita umana. Avere un bel corpo, muscoloso e atletico, è una caratteristica apprezzata in tutte le culture, e non è un caso se, nelle società che si basano soprattutto sul lavoro cognitivo, la sedentarietà e la susseguente flaccidezza delle membra siano diventate un problema serio, che può compromettere gravemente la salute sia fisica che mentale. Inoltre la conformazione muscolo-scheletrica costituisce buona parte del nostro aspetto esteriore, un fattore molto rilevante nei rapporti interpersonali: il corpo, attraverso i movimenti, l’aspetto, e gli indumenti e gli orpelli di cui lo rivestiamo, è il primo e più radicale spazio d’espressione della nostra personalità e della nostra cultura.

Non stupisce dunque che esso sia il tradizionale ambito di applicazione per le tecniche di miglioramento personale, in particolar modo volte a incrementarne le capacità motorie e ad affinarne l’aspetto estetico. La cosmetica e gli sport (almeno nel senso più generale di attività motorie ludico/agonistiche) esistono fin da quando esiste l’uomo stesso e la ricerca tecnologica è da tempo indirizzata a soddisfare tali esigenze. Basta pensare al giro d’affari che ruota attorno alla chirurgia plastica, alla biochimica per la produzione di cosmetici, ai farmaci per l’incremento della massa muscolare usati in ambito sportivo. Grazie alla convergenza NBIC, possiamo immaginare scenari futuri in cui sarà possibile agire sulla conformazione del nostro corpo con relativa facilità, in tutta sicurezza e a basso costo. Un esempio potrebbe essere quello del potenziamento muscolare che, oltre a svolgere un ruolo importante in determinati tipi di occupazioni, può servire come metodo preventivo della sarcopenia, la progressiva degenerazione delle fibre muscolari con l’invecchiamento. La forma classica di questo potenziamento è l’esercizio fisico, ma già oggi sono disponibili farmaci, spesso illegali perché provocano pericolosi effetti collaterali, capaci di incrementare in modo significativo la dimensione e la prestanza della massa muscolare. Sul versante della medicina cosmetica, non è difficile immaginare che le prime applicazioni della micro e nanochirurgia saranno proprio volte all’alterazione somatica.

La progressiva disponibilità del corpo, favorita ma non causata dallo sviluppo tecnologico, sta già evolvendosi in una vera e propria “scultura della carne” che mostra di non conoscere confini di ceto, cultura, sesso o professione. Chiunque svolga un mestiere in cui la bella presenza ha una qualche rilevanza, ha già un buon motivo per utilizzare la cosmetica (chimica o chirurgica che sia); chi invece ha interesse nel migliorare le capacità del proprio corpo, dall’atleta professionista al soldato, fa già parte di un mercato pronto a consumare gli ultimi ritrovati della biotecnologia.

2.2.2 Il potenziamento di capacità prevalentemente psichiche

Spesso non rendiamo il giusto merito a quelle tecnologie che, nel corso della storia, hanno potenziato le capacità cognitive umane. Ci stupiamo e ci meravigliamo della complessità della nostra mente, glorifichiamo le grandi personalità per il loro genio rivoluzionario nell’indagine della natura o per l’impulso che hanno dato allo sviluppo tecnico, ma quasi mai ricordiamo che buona parte dei progressi dell’umanità sono stati possibili solo grazie a determinate tecniche cognitive. La storia dei metodi usati per potenziare le proprie capacità mentali può risalire fino alla scrittura, che migliorò in maniera drastica la memoria e la reperibilità delle informazioni, e dilatò la portata spaziale e temporale della comunicazione. Seguendo le vicissitudini della mente umana nel corso del tempo, verrebbe spontaneo distinguere tra tecniche mentali e strumenti cognitivi materiali, ma è importante sottolineare che, ad un’analisi più approfondita, questa separazione perde gran parte del suo valore. L’alfabeto e i numeri sono strumenti cognitivi che hanno aperto la possibilità di sviluppare tecniche mentali (la scrittura e la matematica) le quali però a loro volta necessitano di strumenti materiali per esprimersi al meglio (il supporto su cui scrivere e leggere, gli utensili per calcolare). La mnemotecnica tanto esplorata nel Rinascimento, era un metodo tutto mentale per potenziare la capacità di memorizzare testi o sequenze di numeri, ma anche il più bravo dei maghi non può reggere il confronto con un semplice libro, che riesce a mantenere inalterate memorie vecchie di millenni. Questa coevoluzione tra capacità mentali umane e tecnologie cognitive, può essere compresa meglio se interpretiamo la nostra mente come un sistema “ibrido” a tutti gli effetti, fondato su una struttura biologica ancestrale (il cervello “rettiliano”), una struttura biologica più recente che si forma anche in risposta all’ambiente (la corteccia) e una serie di “periferiche culturali”, strumenti cognitivi senza i quali sarebbe molto più limitata9. Gli strumenti che abbiamo finora sviluppato agiscono per lo più come un supporto esterno, ma la convergenza NBIC promette un futuro in cui sarà possibile potenziare direttamente facoltà individuali quali la concentrazione, la memoria, la conoscenza o la velocità di ragionamento. In vero, esistono già delle sostanze capaci di influire in modo prevedibile sulla mente: basta pensare all’uso quotidiano che facciamo della caffeina, della nicotina, dei sonniferi, degli anestetici o degli stupefacenti. Siamo giunti a un punto in cui il desiderio di avere sotto controllo il proprio corpo si è dilatato fino a includere la coscienza stessa, ed è proprio questo che le tecnologie NBIC possono promettere: dormire quando si vuole, essere concentrati sul lavoro, rilassati a casa, memorizzare le cose importanti, dimenticare quelle inutili o dannose.

Quali sono le tecnologie all’avanguardia in questo campo e in che modo promettono di migliorare le nostre capacità mentali? Partiamo dalla memoria e dalla capacità di apprendimento. Gli studi più promettenti si basano sulla manipolazione genetica10 quindi per ora non rientrano nel settore in cui ci stiamo concentrando, quello dei biopotenziamenti personali scelti in autonomia da individui adulti. Tuttavia, anche le ricerche farmaceutiche sembrano sulla buona strada. C’è da dire che da tempo si conoscono gli effetti di alcune sostanze stimolanti, i cosiddetti “nootropi”, capaci di migliorare la velocità e la precisione dell’apprendimento, ma che questi studi sono ostacolati dalla messa al bando di alcune di esse in quanto rientrano nelle categorie di stupefacenti più a rischio (una fra tutte, la cocaina). Uno dei protagonisti di queste ricerche è l’acetilcolina, un neurotrasmettitore che sembra essere legato alla formazione dei ricordi: alcuni nootropi agiscono come inibitori dell’enzima adibito alla distruzione dell’acetilcolina, e in effetti producono un temporaneo aumento della memoria. Già nell’ottobre del 2003 la Food and Drug Administration degli USA ha approvato la “memantina” 11, un farmaco per il trattamento del morbo di Alzheimer capace di ridurre il sintomo della perdita di memoria.

Per quanto riguarda invece la concentrazione, il modafinil, un farmaco per contrastare la narcolessia, sembra funzionare molto bene anche nel tenere alto il livello di attenzione di individui sani, soprattutto in condizioni di stress. Questa sostanza riesce a migliorare la fermezza, cioè la capacità di inibire le reazioni istintive e spesso inconsulte, consentendo di ottenere una maggiore accuratezza pur senza ottundere i riflessi12. Un risultato simile si ottiene con le anfetamine che aumentano la concentrazione di dopamina (un neurotrasmettitore) tra le sinapsi e riescono a potenziare in modo significativo molte funzioni dell’organismo. Purtroppo, questo genere di ricerca è compromesso da un problema di fondo molto più ampio, e cioè che, onde poter agire con sicurezza sui molteplici fattori che condizionano la mente, bisogna prima conoscere a fondo il funzionamento del cervello. Non a caso molti nootropi hanno notevoli effetti collaterali negativi e, in alte dosi, possono risultare tossici. Non solo, il valore del farmaco come biopotenziamento soffre in generale di una limitazione strutturale perché qualsiasi principio attivo di questo tipo ha un’efficacia episodica e limitata alla sua persistenza nel flusso sanguigno. È anche per questi motivi che alcuni ricercatori stanno sperimentando la stimolazione magnetica transcraniale per controllarne gli effetti sull’eccitabilità della corteccia cerebrale. Dalle prime ricerche13 sembra che questo tipo di tecnologia sia in grado di migliorare l’apprendimento motorio, la coordinazione e l’apprendimento procedurale.

Le tecniche per potenziare la creatività, l’autocontrollo, la velocità del ragionamento e la forza di volontà, sono ancora molto rudimentali e per lo più si rifanno a conoscenze non scientifiche, ma, se la convergenza NBIC manterrà la promessa e aiuterà la ricerca nella comprensione del cervello umano, non sembra impossibile arrivare al punto di saper gestire, come e quando si vuole, tutte le proprie facoltà cognitive. Il punto importante qui è che tutto il campo di ricerca associato alla cura e prevenzione del deterioramento cognitivo senile, rappresenta già un mercato potenziale multimiliardario. Secondo Wrye Sententia del “Center for Cognitive Liberty and Ethics”, la prospettiva economica presentata da questa nuova fetta di mercato spingerà le industrie del settore a investire nel prossimo futuro molte più risorse nella ricerca di farmaci per il potenziamento cognitivo. Già oggi ci sono almeno 60 aziende farmaceutiche e biotecnologiche impegnate a sviluppare sostanze per la memoria14 e sarà solo questione di tempo prima che vengano scoperti composti sicuri ed economici. È naturale supporre che questi progressi nel campo della terapia alimenteranno il mercato parallelo dei biopotenziamenti non legati alla salute.

2.2.3 L’interfaccia cervello/macchina: le neuroprotesi

Il termine “interfaccia” indicava, originariamente, “il punto di contatto, di trasmissione tra due o più elementi”15 chimici, fisici o meccanici, e solo in un secondo momento fu risemantizzato dagli ingegneri informatici per indicare quelle parti hardware e software che permettono all’utente di interagire con un calcolatore elettronico. Nel corso del tempo, man mano che la scienza dell’interazione uomo/macchina e uomo/computer in particolare acquisiva importanza, lo studio delle interfacce è diventato sempre più fondamentale per il design industriale, fino a raggiungere un posto di primo piano in fase di progettazione. Esso si è fatto carico dell’esperienza maturata dall’ergonomia, cioè “l’insieme di regole, modalità, strumenti, condizioni, vincoli e opportunità attraverso i quali l’uomo manipola e scambia informazioni con gli artefatti e, tramite gli artefatti, con gli altri uomini”16, e oggi siamo giunti alla consapevolezza del fatto che l’interfaccia determina gran parte del modo in cui usiamo gli artefatti tecnologici. Come scrive la Scalisi riportando le tesi di P. Lévy:

“L’uso sociale delle tecnologie deriva dalle loro interfacce. In pratica non è il principio costitutivo di una macchina a determinarne l’uso, ma le modalità attraverso cui questo principio viene articolato nel rapporto tra uomo e macchina e cioè nell’interfaccia.”17

I problemi legati allo studio dell’interazione uomo/macchina sono molto pratici e riguardano soprattutto la facilità di apprendimento e d’uso dell’interfaccia. Quando usiamo uno strumento (e in particolar modo quando usiamo strumenti complessi come i computer), tra le nostre intenzioni e le possibilità realmente disponibili c’è sempre una certa incongruenza: a volte non riusciamo a fare immediatamente ciò che vorremmo, e dobbiamo sempre adeguarci o limitarci al modo in cui lo strumento “chiede” di essere utilizzato. Secondo una teoria ideata dallo psicologo D. A. Norman18 ciò è particolarmente vero nel mondo delle tecnologie elettroniche, ambito in cui le “distanze” tra l’utente e l’artefatto diventano ben tre. Anzitutto tra le nostre intenzioni e il significato dei comandi disponibili in un’interfaccia c’è sempre una certa “distanza semantica” che limita la nostra libertà e velocità d’espressione. In secondo luogo, tra il significato di un comando e la sua forma c’è una “distanza di riferimento” e ciò complica l’uso: spesso, soprattutto con le interfacce software, il modo in cui bisogna interagire per ottenere certi risultati non è affatto immediato o intuitivo, ma richiede un certo apprendimento preliminare, con tutte le conseguenze che questo comporta. Infine abbiamo una “distanza inter-referenziale”, l’incongruenza tra l’input e l’output, cioè tra i comandi che devo eseguire e la risposta semantica fornita dall’interfaccia (lo sterzo di un’auto deve esercitare una certa inerzia altrimenti si riduce per chi guida la sensazione di aver effettivamente svoltato; il bottone di un mouse deve emettere un “click” per farmi capire che il comando è stato accettato). La presenza di queste distanze è dovuta sì a una scarsa attenzione nei confronti dell’utente, ma è anche causata da un’incongruenza di base apparentemente inconciliabile: noi dobbiamo interagire con gli artefatti sempre e comunque attraverso un’interfaccia, la quale, per quanto sia progettata nel migliore dei modi, solo perché esiste esercita sempre un carico cognitivo o somatico sull’utente.

Ma cosa accadrebbe se l’interfaccia raggiungesse uno stadio di perfezionamento tale da svanire del tutto? Avremmo la possibilità di interagire con gli strumenti con la stessa semplicità con cui usiamo il nostro stesso corpo. E qui entrano in campo le tecnologie NBIC che, grazie alla miniaturizzazione dell’elettronica e alla bionanotecnologia, promettono di rivoluzionare il modo in cui ci rapportiamo con i nostri artefatti. Il primo passo sarà un’evoluzione dell’ormai comune telefono cellulare, che si sta trasformando in un vero e proprio computer indossabile provvisto di un’avanzata intelligenza artificiale19. La tecnologia portatile sta causando tre grosse rivoluzioni nell’interazione uomo/macchina: (1) sta diventando sempre più costante nel tempo, perché agisce senza soluzione di continuità e in automatico, (2) ben presto ci consentirà di potenziare direttamente la portata dei nostri sensi e, indirettamente tramite il supporto cognitivo di un agente artificiale, migliorerà il nostro intelletto, (3) infine potrà fungere da mediatrice con l’ambiente esterno, sia esso naturale o tecnicamente predisposto all’interazione. Il computer diverrà così personale e personalizzato da poter svolgere le funzioni di un terzo emisfero cerebrale20: servirà per ricordare in modo immediato tutte le esperienze da noi vissute, recuperare ogni genere di informazioni nel giro di pochi attimi, avvisarci di potenziali pericoli, tenere sotto controllo la funzionalità del nostro organismo ed essere programmato per rispondere a certe evenienze, connettersi ad altri computer e creare delle “menti collettive”, tradurre in tempo reale le lingue straniere e quant’altro.

In un secondo momento, soprattutto grazie agli sviluppi della nanobiotecnologia, sarà possibile ridurre l’interfaccia a livello neurale e connettere direttamente il sistema nervoso umano alle macchine. Gli artefatti diverranno vere e proprie estensioni del nostro corpo e ci consentiranno potenzialità soltanto fantasticabili, come poter vedere con occhi artificiali o camminare con gambe robotiche, respirare sott’acqua, guidare con la sola forza del pensiero. Ovviamente, uno scenario del genere presenta enormi difficoltà: oltre al classico problema della biocompatibilità, sembra necessario affinare le procedure di calcolo analogico che, attualmente, sono ad uno stadio ancora rudimentale21 e, ovviamente, perfezionare la conoscenza del funzionamento del cervello umano. Il fulcro dell’interfaccia cervello/computer (brain-machine interface o BMI) è infatti “la nostra crescente abilità nell’uso di metodi elettrofisiologici per estrarre informazioni circa i processi intenzionali del cervello dalla grezza attività elettrica di grandi popolazioni di singoli neuroni, e in seguito tradurre questi segnali naturali in modelli atti al controllo di artefatti esterni.”22

Il lavoro da fare in questo settore è ancora enorme, ma non sembrano esserci ostacoli di tipo teorico sulla strada che conduce alle neuroprotesi.

2.3 Tecnologie per il prolungamento della vita

L’invecchiamento e la morte sono due aspetti fondamentali della vita, soprattutto di quella degli animali. Nel nostro organismo, le cellule si duplicano e muoiono in continuazione, in una danza fatale che, prima o poi, porta alla disfunzione organica e alla morte della persona. La degenerazione dei tessuti è insita nel nostro modo d’essere e non sembra esagerato affermare che siamo geneticamente programmati per morire. L’invecchiamento è un orologio implacabile che segna il ritmo con cui ci avviciniamo all’ora finale, annunciata di anno in anno sotto forma di inestetismi, affievolimento delle capacità cognitive, indebolimento della struttura ossea e della potenza muscolare, sofferenze croniche. Gradualmente, perdiamo il vigore della gioventù e ci ritroviamo impossibilitati a compiere molte delle attività che riempivano la vita di un tempo.

Non c’è da stupirsi se l’altra metà della ricerca basata sulla convergenza NBIC, soprattutto in ambito medico, si pone come obbiettivo quello di migliorare la salute umana, rallentare i processi di invecchiamento ed elevare la speranza di vita massima, anche ben oltre la soglia naturale. Vediamo brevemente quali sono le strade attualmente più promettenti per realizzare uno dei sogni più antichi dell’umanità, l’elisir di lunga vita.

2.3.1 Come affrontare il problema

Anzitutto bisogna capire qual è di preciso il problema da risolvere. Quando si usa l’espressione “prolungamento della vita” ci si riferisce in modo troppo generico a un oggetto molto complesso (la vita biologica umana) che è possibile studiare da molteplici prospettive.

Dal punto di vista dell’igiene e della prevenzione, prolungare la vita di un individuo significa intervenire sul suo corpo in modo tale da contrastarne le cause di morte prematura. Questo è l’approccio grazie al quale, da quando è nata la medicina moderna e soprattutto nei paesi più ricchi, la speranza di vita media dell’uomo si è impennata. Oggi, nell’Occidente, la presenza di sistemi sanitari nazionali ha drasticamente ridotto la mortalità infantile, gran parte delle malattie epidemiche sono state debellate grazie ai vaccini, e le migliori condizioni igieniche (dovute principalmente alla costruzione di sistemi fognari in tutti gli agglomerati urbani e all’introduzione della refrigerazione nella catena della distribuzione alimentare) hanno quasi del tutto eliminato il rischio di contrarre infezioni mortali. I grandi risultati ottenuti sfruttando questo approccio hanno significativamente migliorato le condizioni di vita di milioni di persone, ma, proprio per questo, ormai non possiamo aspettarci altri progressi in termini di prolungamento della vita: la morte prematura per cause naturali nei paesi più ricchi è già quasi nulla. In termini di allungamento della vita, gli sforzi d’igiene e prevenzione otterrebbero risultati ben più significativi se fossero concentrati sui popoli meno abbienti.

Se passiamo ad un approccio più terapeutico e seguiamo la direzione in cui attualmente procedono gli sforzi delle scienze mediche, le cose migliorano solo di poco. Gran parte della ricerca è impegnata a individuare e contrastare le singole patologie, con l’obiettivo di prolungare la vita a chi ha già superato l’età matura. Cancro, malattie cardiovascolari, morbo di Alzheimer, diabete e quant’altro sono ormai le principali cause di morte nei paesi Occidentali, dove la speranza di vita media si ferma ai circa 80 anni attuali: oggi gran parte delle persone muoiono a causa di patologie che tendono a presentarsi nella terza età. Questa prospettiva, la più diffusa, sembra il naturale proseguimento della medicina terapeutica, perché si pone come obbiettivo quello di riportare le condizioni del corpo umano entro uno spettro di “normalità”, ma ha il grosso difetto di prendere in considerazione le singole patologie e non la qualità dell’intero arco esistenziale di una persona. Ciò significa che, nella prospettiva terapeutica, l’elisir di lunga vita si riduce a mero prolungamento della vecchiaia, o meglio, estensione della fase della vita in cui la vita stessa tende, per cause di forza maggiore, ad affievolirsi sempre più. Se consideriamo quante energie sono spese ogni anno per procrastinare di qualche mese la vita biologica di persone ormai ridotte allo stremo delle forze, costrette magari a trascorrere intere giornate sul letto di un ospedale, incatenate a macchine ingombranti e a cure dolorose o sballottate tra una sala operatoria e un’altra, non stupisce che molti stiano cercando una strada alternativa.

E qui si presenta il terzo approccio, ben più radicale. Invece di prendere in considerazione le singole cause di “morte sempre meno prematura”, conviene forse concentrarsi sul solo, grande fenomeno dell’invecchiamento stesso. Superata la soglia di maturità, il nostro corpo tende naturalmente a degradarsi e a indebolirsi, cosa che rende l’età il più grande fattore di rischio per la vita umana. Questo processo è del tutto naturale ed è conseguente al mero fatto biologico dell’essere vivi: per mantenere tutte le funzioni organiche entro i livelli compatibili con la vita, le nostre cellule devono agire in concerto sintetizzando e attivando autonomamente decine di migliaia tra frammenti di RNA e proteine, proprio nei luoghi, nei tempi e nelle quantità giuste per evitare la totale disintegrazione. Ma la complessità delle funzioni che il nostro stesso organismo compie per conservare il metabolismo entro livelli di sopravvivenza, pur essendo un’enorme ricchezza, è anche un tremendo punto debole perché, accumulando sempre più disfunzioni e difetti, tende a deteriorarsi con l’età fino a corrompersi del tutto, sfociando poi in debolezze e patologie mortali. Ora, se conoscessimo a fondo la complessità del nostro corpo e il modo in cui essa si evolve nel tempo, potremmo colpire le cause stesse dell’invecchiamento, e magari ridurre e riparare i danni causati dal mero essere in vita. Questo significa che, per trovare il segreto dell’elisir di lunga vita, la via migliore è quella di interpretare l’invecchiamento come uno stato patologico, anzi, come la più grave e importante patologia alla quale tutti i mammiferi sono soggetti.

Ma che cos’è l’invecchiamento? La gerontologia non è ancora giunta a una definizione ultima del suo stesso oggetto d’indagine. Vediamone alcune di indole transumanista:

    “mutamenti deteriorativi cronici che avvengono durante la vita postpuberale, caratterizzati da una crescente vulnerabilità alle sfide ambientali e da una conseguente diminuzione dell’abilità che l’organismo ha nel sopravvivere”23

    “ciò che avviene quando i tassi di sopravvivenza o riproduzione declinano inesorabilmente, anche quando gli organismi si trovano in un ambiente ottimale”24

    “un insieme di processi degenerativi mutuamente sinergici, che iniziano in giovane età e progrediscono lentamente, gli stadi finali dei quali risultano fatali, pur assumendo lo status di ‘patologia’ solo se uccidono relativamente spesso o se debilitano gravemente le persone prima che queste abbiano raggiunto l’aspettativa di vita della società in cui vivono”25

    “un insieme di mutamenti cumulativi nella struttura cellulare e molecolare di un organismo adulto, causati dai processi metabolici essenziali, e che, negli stadi più avanzati, tende a ostacolare il metabolismo stesso, provocando patologie e morte”26

    “una malattia terminale sessualmente trasmessa che può essere definita come un insieme di mutamenti cronici nell’organismo i quali conducono a disagio, sofferenze e, infine, morte”27

Tutte queste definizioni variano in base allo scopo dei loro autori. La 1 e la 2 sono molto generali e valgono per quasi tutti gli animali, la 3 e la 4 si riferiscono direttamente agli esseri umani, mentre la 5 è più che altro una provocazione. Tutte però hanno in comune due caratteristiche: anzitutto non danno all’invecchiamento alcun carattere di inevitabilità e lasciano aperta la porta a una possibile cura; in secondo luogo, mettono in luce come esso sia il risultato di molteplici fattori insiti nel nostro naturale metabolismo. Ma è teoricamente possibile arrestare l’invecchiamento?

Secondo il biologo evoluzionista Michael Rose28, autore della seconda definizione, bisogna senza dubbio rispondere affermativamente. Gli esperimenti sulla mortalità negli insetti mostrano l’esistenza di tre fasi: nel periodo giovanile e in quello senile i tassi di mortalità crescono molto lentamente (pur essendo bassi nel primo e molto alti nel secondo), mentre nella fase matura si assiste a un’impennata. Questo significa che gli organismi anziani “invecchiano meno” rispetto a quando erano nel periodo della riproduzione, a tal punto che il loro tasso di mortalità tende a stabilizzarsi. Secondo Rose, la spiegazione di questo fenomeno è relativamente semplice se si prende in considerazione la teoria dell’evoluzione. La selezione naturale agisce, sugli organismi che si riproducono per via sessuale, solo durante la prima fase dell’esistenza e si arresta quasi del tutto dopo l’età riproduttiva. Infatti, ritardando artificialmente la riproduzione e prolungando di conseguenza la fase in cui la selezione naturale è più forte, attraverso le generazioni gli organismi si adattano ad invecchiare più lentamente. Questo dimostra che i processi dell’invecchiamento possono essere manipolati per via genetica e nulla toglie che un giorno si possano comprendere anche nell’uomo. È sulla base di queste considerazioni che il microbiologo J. P. de Magalhaes può affermare

“Non esiste alcuna legge della natura che ci impedisca di istruire le cellule di un essere umano adulto affinché evitino di invecchiare, tramite, ad esempio, una mutazione nel loro patrimonio genetico sia a livello del DNA che a quello epigenetico”29

2.3.2 I sette volti dell’invecchiamento

Ma quali sono questi processi e come possiamo pensare di rallentarli? Secondo il gerontologo Aubrey de Grey dell’Università di Cambridge, uno dei transumanisti più attivi nel campo del prolungamento della vita, il terreno su cui dobbiamo combattere la guerra contro l’invecchiamento è quello delle funzioni cellulari. Partendo dalla considerazione del fatto che gli effetti collaterali patogeni del naturale metabolismo umano non sono essenziali al metabolismo stesso e che quindi possono essere eliminati (sua è la quarta delle definizioni riportate sopra), de Grey ha dato vita al progetto SENS, “Strategies for Engineering a Negligible Senescence”30, con lo scopo di sviluppare le tecniche mediche adatte a contrastare l’invecchiamento. I mutamenti incriminati sono sette, e il loro numero è ormai stabile da circa vent’anni. Secondo de Grey, il semplice fatto che due decadi di ricerca non abbiano dato modo di aggiungere altri fenomeni, è una buona ragione per supporre che non ve ne siano. Vediamoli uno ad uno.

Impoverimento cellulare: Le cellule di molti tessuti di estrema importanza per la nostra sopravvivenza, presenti sia nel cuore che in determinate zone del cervello, col tempo muoiono e non vengono rimpiazzate, e questo impoverimento a lungo andare può causare gravi disfunzioni. La cura migliore consiste nel trovare un modo per stimolare la divisione cellulare, affinché delle cellule sempre nuove (e giovani) possano rimpiazzare quelle morte. Qui la soluzione sembra insita nel problema, perché nel nostro corpo esistono già le cellule staminali, una sorta di cellule “generiche” che hanno il potenziale di trasformarsi in ogni tipo di cellula presente in un organismo adulto. Se, tramite l’ingegneria genetica, riuscissimo a potenziare le cellule staminali in modo tale che siano sempre pronte a ristrutturare i tessuti deboli, potremmo arrestare del tutto l’impoverimento. Attualmente è già possibile creare artificialmente alcuni tessuti, partendo dalle cellule staminali di una persona, e poi trapiantarli; non sembra molto lontano il giorno in cui sarà relativamente facile sostituire ogni organo del nostro corpo anziano con un esemplare giovane coltivato artificialmente (che, avendo il nostro stesso DNA, non presenterebbe problemi di rigetto).

Mutazioni del Nucleo: Il secondo grande rischio dovuto all’invecchiamento cellulare è il graduale accumulo di mutazioni nei cromosomi. In ogni singola cellula del nostro corpo è presente un’enorme quantità di DNA che, a ogni divisione, subisce lievi cambiamenti; il susseguirsi nel tempo di questi “errori di copia” può dar vita a cellule cancerogene, le quali, se non vengono immediatamente distrutte dal sistema immunitario, si riproducono ad oltranza formando dei tumori. Ovviamente l’evoluzione naturale ci ha dotati di un sistema molto complesso ed efficace per ridurre al minimo il rischio di sviluppare tumori, cosa che ci lascia con un unico compito da svolgere, per quanto difficile: trovare una cura per il cancro. Secondo de Grey, le ricerche più promettenti in quest’ambito vengono dallo studio sui telomeri, le estremità dei cromosomi che presentano una sequenza lunga e ripetitiva. I telomeri servono per indurre alcune proteine a rivestire le propaggini dei nostri cromosomi, in modo tale che queste restino protette e non si uniscano l’una all’altra. Il problema è che a ogni divisione cellulare i telomeri si accorciano (cioè non vengono “copiati” fino in fondo nelle nuove cellule) e, dopo circa 50 divisioni (negli esseri umani), diventano praticamente inutili, lasciando le cellule più esposte al rischio di mutazioni. Ovviamente questo accorciamento non avviene nelle cellule riproduttive, che si duplicano in continuazione senza problemi (altrimenti i figli nascerebbero con cromosomi più corti rispetto a quelli dei loro genitori e dopo 50 generazioni l’umanità degenererebbe in un caos genetico). Questo è possibile per la presenza di un enzima, la telomerase, che ricostruisce le propaggini dei cromosomi man mano che la divisione cellulare le accorcia. Bene, quasi tutti i tumori attivano la telomerase e possono dividersi indefinitamente. Secondo de Grey, la cura più promettente per il cancro consiste nella eliminazione dei geni che codificano la telomerase in tutte le cellule del nostro corpo (Whole-body Interdiction of Lengthening of Telomeres o “WILT”), cosa che impedirebbe alle cellule tumorali di prosperare. Un intervento così drastico richiederebbe un completo ripopolamento delle nostre cellule staminali almeno ogni dieci anni, per permettere la sostituzione delle cellule del corpo che nel tempo si atrofizzano o muoiono, ma dal punto di vista teorico non sembra essere infattibile.

Mutazioni dei Mitocondri: I mitocondri sono delle macchine molecolari che permettono alla cellula di “respirare”, combinando l’ossigeno con le sostanze nutrienti per produrre energia. I mitocondri hanno la particolarità di avere un proprio DNA che codifica 13 proteine e che, trovandosi fuori dal nucleo, è molto più suscettibile alle mutazioni. Le cellule che tendono ad accumulare più mitocondri mutanti sono quelle che non si dividono, come le fibre muscolari e i neuroni, cosa che comporta seri problemi di carattere tecnico. Secondo de Grey, l’unica soluzione alle mutazioni mitocondriali potrà venire dallo sviluppo della terapia genica, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Cellule dannose: Nel corso del tempo, alcune cellule tendono ad accumularsi nel corpo fino a risultare dannose per il metabolismo. I principali incriminati sono il grasso viscerale, che gradualmente provoca il diabete, le cellule senescenti che si accumulano nelle cartilagini e producono grandi quantità di proteine anche tossiche, e alcune cellule del sistema immunitario, le quali perdono funzionalità e rendono l’organismo più suscettibile alle malattie. Le ricerche in questi ambiti sono scarse anche se le soluzioni non sembrano molto difficili.

Legami reciproci extracellulari tra proteine: Nel nostro corpo esistono alcune proteine che non vengono mai, o quasi mai, sostituite nel corso della vita. Col tempo, queste proteine, che per lo più svolgono compiti passivi, possono reagire chimicamente con altre molecole che si trovano nello stesso spazio extracellulare e provocare danni ai tessuti. L’esempio tipico è quello delle pareti arteriose, che in tarda età si fanno sempre più rigide e tendono a far innalzare la pressione sanguigna. I legami reciproci tra proteine vicine invecchiano i tessuti extracellulari e non possono essere risolti una volta per tutte: sono di vario tipo e, seppur lentamente, si riformano nel corso del tempo. L’unica soluzione è quella di individuarli tutti e sintetizzare farmaci capaci di contrastarne la formazione.

Rifiuti extracellulari: Tra le cellule possono formarsi degli agglomerati di materia del tutto inutile e resistente che possono danneggiare i tessuti. Un esempio è l’amiloide che si accumula in placche nel cervello di chi è affetto dal morbo di Alzheimer. Le strategie per eliminare questi accumuli sono sostanzialmente due: potenziare il sistema immunitario affinché li riconosca e distrugga, oppure sviluppare molecole ad hoc capaci di dissolvere le placche.

Rifiuti intracellulari: Molto raramente può accadere che le macchine molecolari presenti nelle cellule subiscano tali e tante modificazioni chimiche da diventare non solo inutili ma anche indistruttibili con i mezzi della cellula stessa. Questi agglomerati sono particolarmente dannosi nelle cellule che non si dividono regolarmente e possono creare disfunzioni molto gravi, tra cui ad esempio l’arteriosclerosi (la formazione di placche di globuli bianchi malfunzionanti sulla superficie interna delle arterie che, staccandosi in blocco, possono causare infarti e ictus), la degenerazione neurale (una delle cause della demenza senile) e la degenerazione maculare (che annebbia la vista). Secondo de Grey, la soluzione migliore a questo problema consiste nell’istruire le cellule stesse a distruggere gli agglomerati, con degli enzimi artificiali estratti dai batteri e dai funghi che proliferano nei corpi in decomposizione, i quali sono evidentemente capaci di scomporre questo genere di agglomerati.

2.3.3 La nanomedicina

Uno dei più ambiziosi campi d’applicazione della nanotecnologia sarà quello medico. Sviluppare nanomacchine capaci di integrarsi appieno in un ambiente organico presenta infatti enormi problemi sul versante del rigetto immunitario e sulla difficoltà di prevedere gli effetti collaterali a lungo termine. Secondo Patricia Connolly, bioingengere presso l’Universita di Strathclyde31, l’approccio migliore al problema è quello di assumere fin dal principio una prospettiva olistica, che trascenda la soluzione immediata di singole patologie per concentrarsi su un programma unitario diviso in più punti con lo scopo di prolungare la vita umana. Uno dei più importanti scogli da superare è proprio il nostro sistema immunitario, che provoca naturalmente delle risposte infiammatorie all’invasione di corpi esterni. Forse la prima, in ordine di tempo, applicazione della nanomedicina dovrebbe consistere nella produzione di protesi e strumenti chirurgici biocompatibili, cioè provvisti di una superficie strutturata a livello molecolare in modo tale da non provocare il rigetto o irritazioni.

Un secondo passo sarebbe lo sviluppo di interfacce bioniche che consentano di collegare il sistema nervoso a impianti cibernetici in modo del tutto ergonomico e sostenibile dall’organismo. Con interfacce del genere e la convergenza con la robotica, è pensabile realizzare protesi rivoluzionarie, quali sistemi di percezione per non vedenti e non udenti, o sistemi di deambulazione per chi è impossibilitato a camminare. Il progresso nel campo della nanobiotecnologia può d’altra parte conseguire risultati quasi invisibili eppure efficacissimi. Il sistema immunitario stesso, potrebbe essere potenziato (fino ad essere sostituito) da famiglie di nanomacchine biocompatibili studiate per riparare il nostro organismo in caso di lesione, ripulire le arterie dal colesterolo e i polmoni dalle sostanze tossiche che respiriamo, elaborare e rilasciare farmaci proprio nei punti in cui sono necessari. Secondo Drexler32 è teoricamente possibile costruire nanomacchine capaci di leggere il DNA di cellule sane, registrarlo, e controllare tutte le altre cellule di un tessuto per verificarne la correttezza, potenziando drasticamente le capacità degli enzimi naturali preposti a tale scopo e riducendo di conseguenza il rischio di sviluppare tumori. In questa prospettiva, ancora del tutto ipotetica, non sembra così strano pensare a un radicale prolungamento della vita sana, soprattutto dovuto a un sistema di prevenzione intelligente e “informatizzato” diffuso in tutto il corpo e capace di tenersi sempre aggiornato mediante degli “upgrade” periodici.

Uno dei ricercatori più interessati allo sviluppo della nanobiotecnologia è Robert Freitas Jr., dell’Institute for Molecular Manufactoring in California. Secondo Freitas, la soluzione ai problemi identificati da de Grey verrà dallo sviluppo di nanomacchine biocompatibili che consentiranno ai medici di “eseguire riparazioni interne a cellule individuali in tempo reale, eliminando di conseguenza quasi tutte le principali cause di morte biologica naturale”33

Due esempi di nanorobot relativamente semplici ma di grande utilità sono il “respirocita” e il “microbivoro”. Il respirocita è un globulo rosso artificiale, molto più piccolo della controparte naturale, capace di contenere una pressione di 1000 atmosfere e oltre. Grazie a una serie di rotori disposti sulla sua superficie, e a dei sensori di temperatura e pressione, il respirocita può rilasciare ossigeno e catturare anidride carbonica nel sangue. Secondo Freitas, basterebbero 5cc di respirociti per raddoppiare la densità di ossigeno trasportabile dal sangue di una persona adulta: questa capacità potrebbe svolgere funzioni terapeutiche, come rilasciare ossigeno extra in caso di soffocamento, o preventive, come mantenere in vita più a lungo chi ha subito un infarto. Il microbivoro invece, è un nanorobot progettato per svolgere la fagocitosi e supportare i globuli bianchi nel loro compito di pulizia del sangue da agenti esterni, evitando che questi si accumulino nel tempo. La parte interessante di queste invenzioni (che ad oggi sono ancora sulla carta) è che non sembrano essere niente di particolarmente innovativo, perché sfruttano i principi delle nanomacchine biologiche di cui noi stessi siamo fatti, sviluppatesi con la selezione naturale nel corso di milioni di anni. I nanoingengeri si limiterebbero solo a potenziare le funzionalità di organi naturali, ottenendo però come risultato un significativo miglioramento della longevità umana.

2.4 Tecnologie per il miglioramento dell’umore e del benessere psichico

Sia il desiderio di migliorare le proprie prestazioni psicofisiche che quello di prolungare la durata di una vita sana, sembrano motivazioni accessorie quando sono viste dalla prospettiva, ben più radicale, di chi spera che la convergenza NBIC possa rendere disponibili dei mezzi sempre più efficaci e sicuri per controllare il proprio stato d’animo. La storia delle tecniche che l’uomo ha escogitato per placare le sofferenze della vita è antica quanto la specie stessa34, e comprende sia l’uso di sostanze psicoattive che lo studio e la pratica di discipline mentali e fisiche. La differenza tra questi due “percorsi”, uno più immediato ma passeggero, l’altro più arduo e duraturo, ha spesso diviso, anche in modo aspro, i rispettivi difensori, ma una cosa è certa: il benessere, inteso come uno stato emotivo di contentezza più o meno persistente, non viene da sé, e bisogna pur sempre darsi da fare in qualche modo per raggiungerlo.

Le nuove tecnologie, in particolar modo la convergenza tra farmacologia e scienze cognitive, hanno già da tempo posto le basi per la piena padronanza di alcuni dei processi cerebrali che sottendono il buon umore, e oggi esistono sostanze capaci di alterare anche in modo radicale il nostro stato psicoemotivo in maniera sufficientemente prevedibile. Non è difficile immaginare come, grazie alla convergenza NBIC, sarà possibile coniugare una migliore conoscenza del corpo col desiderio di vivere meglio, o di sentirsi meglio. La farmacologia potrebbe sfruttare i risultati dell’ingegneria genetica per creare dei veri e propri sieri della felicità personalizzati, la chirurgia potrà avvalersi delle nanotecnologie per intervenire minuziosamente sul sistema nervoso e porre qualche rimedio al dolore cronico o a quei malfunzionamenti che provocano depressione e altre patologie. Un altro settore di ricerca che promette buoni risultati è quello della genetica comportamentale, una scienza che cerca di individuare quanta e quale parte del nostro carattere e della nostra vita emotiva è condizionato dal patrimonio genetico. Ebbene, uno degli indirizzi di ricerca più sorprendenti ipotizza un certo grado di ereditarietà nella disposizione emotiva35.

Il pensiero di come la convergenza NBIC possa aiutare l’uomo a raggiungere la felicità lascia perplessi. Che cosa s’intende migliorare in questi casi? In che senso è possibile concretizzare un “potenziamento del benessere”? Secondo Mark Walker, filosofo transumanista dell’Università di Toronto36, conviene distinguere cinque sensi in cui possiamo intendere il termine “felicità”:

    Contentezza circostanziale: implica un oggetto per il quale proviamo una sensazione di contentezza o uno stato di cose che giudichiamo in modo positivo.

    Sensazione di felicità: è uno stato emotivo temporaneo e relativamente breve, il buon umore che non ha necessariamente un oggetto. Può derivare da un evento positivo delle nostre vite, ma può anche nascere dalle piccole cose che rendono gioiosa una giornata.

    Disposizione positiva: è la personalità gioiosa di alcune persone, un modo di affrontare la vita con ottimismo. È molto simile al secondo significato, ma se ne differenzia perché è una forma di comportamento duratura.

    Soddisfazione personale: questo è il benessere personale dovuto alla congruenza tra le proprie aspirazioni, i propri valori e lo stato della propria vita. È uno stato di contentezza motivato da un giudizio.

    Felicità ideale: ovviamente, per quanto il terzo e il quarto significato non siano necessariamente interdipendenti, di solito chi ha una buona disposizione tende a essere soddisfatto della propria vita. Questo è l’ideale di vita che ognuno, in base alle proprie convinzioni e tradizioni, coltiva, il perfetto connubio tra lo stato d’animo e il giudizio positivo su se stessi.

Ovviamente l’obiettivo più ambito è quello di raggiungere la felicità ideale, ma allo stato attuale delle nostre conoscenze è molto più fattibile sviluppare tecnologie per migliorare lo stato d’animo o provare una sensazione di felicità. Già conosciamo alcuni dei processi che sono alla base del nostro umore e il modo in cui modificarli. Sostanze psicotrope come la metilenediossimetanfetamina (MDMA, meglio conosciuta come “ecstasy”), causando un massiccio rilascio di serotonina (un neurotrasmettitore), provocano una forte sensazione di euforia e benessere. Nel cervello dei mammiferi esistono vari “centri del piacere” che, se stimolati elettricamente, determinano sensazioni di benessere di varia intensità. È vero che c’è ancora molto lavoro da fare, ma i costanti progressi della neurofisiologia fanno ben sperare: nel prossimo futuro verranno perfezionati metodi economici e sicuri per portare chiunque lo desideri ad avere una buona disposizione, senza lasciarsi sopraffare dalla disperazione, dagli eventi tragici e da altri insormontabili ostacoli che la vita pone sul sentiero verso la felicità.

Ma non solo. Anche il giudizio stesso sullo stato della propria vita può essere per certi versi condizionato. Se si riuscisse a trovare un modo sicuro per alterare la memoria, eliminando magari i ricordi traumatici (o la sensazione sgradevole ad essi legata), sarebbe possibile ottenere un enorme controllo sulla propria identità. I ricordi infatti costituiscono gran parte della nostra vita e una tecnica capace di alterarli potrebbe contribuire in modo significativo al raggiungimento del benessere psicoemotivo. Per esempio, dal punto di vista terapeutico, si stanno già studiando sostanze e tecniche capaci di affievolire le sensazioni sgradevoli associate a eventi traumatici. L’effetto delle emozioni sulla capacità di ricordare è un fenomeno ancora oscuro, ma è ampiamente assodato che una forte stimolazione emotiva provoca il rilascio nel sangue di particolari ormoni, la cui presenza nella fase di consolidamento della memoria può determinare in modo significativo la persistenza e l’intensità del ricordo. Sembra che questi ormoni (in particolar modo l’adrenalina), vadano ad agire principalmente sull’amigdala, una regione del cervello il cui ruolo nei processi mnemonici è ancora tutto da esplorare. Alcuni studi però hanno mostrato che, sopprimendo l’azione dell’adrenalina mediante dei beta-bloccanti (antagonisti del recettore beta-adrenergico, dei farmaci sviluppati più di quarant’anni fa per curare l’ipertensione), entro sei ore da un evento traumatico, è possibile ridurne in modo significativo il ricordo. Questo significa che l’impatto delle emozioni sulla memoria può essere alterato per via farmaceutica: con le giuste sostanze, sarà possibile eliminare definitivamente l’effetto traumatico di certi avvenimenti (le vittime di crimini violenti o di disastrosi incidenti), o migliorare la capacità di concentrazione di chi lavora nel campo della sicurezza civile (i vigili del fuoco e le squadre di pronto soccorso).

Insomma, sono già state poste le basi per la manipolazione tecnica dell’umore e della memoria al fine di raggiungere uno stadio di disposizione positiva persistente, e non è difficile immaginare come le nuove tecnologie NBIC possano contribuire a migliorare anche i giudizi sulla propria vita: quando si ha la possibilità di eliminare la sensazione di spiacevolezza associata a certi ricordi, si ha anche la lucidità mentale per rivalutarli in modo da conferir loro un significato, arricchendo la propria esistenza senza comprometterla.

2.5 Il corpo umano, Versione 2.0

Secondo Raymond Kurzweil, uno dei più prolifici inventori nel campo dell’intelligenza artificiale nonché futurologo transumanista, nel giro di qualche decennio sarà letteralmente possibile aggiornare il nostro corpo e la nostra mente, proprio come oggi facciamo con i computers37. Nanomacchine intelligenti ci aiuteranno a tenere sottocontrollo il corretto funzionamento del nostro corpo e a curare un grande spettro di patologie. Ognuno godrà di una dieta personalizzata ottimale, composta da elementi nutritivi da iniettare direttamente nel flusso sanguigno, e sarà possibile bloccare l’assorbimento dei cibi nell’apparato digerente, consentendoci di separare il piacere di pasteggiare dall’assimilazione delle pietanze: potremo mangiare tutto quello che vorremo e quando vorremo, senza temere per le conseguenze negative di una cattiva alimentazione. Con lo sviluppo della nanobiotecnologia, il sistema cardio-circolatorio sarà completamente riprogettato per essere più funzionale e performante: il sangue sarà composto da nanorobot simili ai respirociti di Freitas, mentre il cuore sarà sostituito da una serie di micropompe decentralizzate. Gli ormoni, gli enzimi ed altre sostanze chimiche necessarie alla vita saranno prodotte artificialmente, eliminando la necessità di avere un sistema endocrino: a poco a poco ogni organo sarà sostituito con un sistema artefatto isofunzionale, molto più resistente e potente della sua controparte naturale.

E il cervello? Mai prima d’ora la comunità scientifica ha ottenuto tanti progressi nella comprensione della fisiologia del cervello. Grazie alle tecnologie informatiche, oggi la radiologia medica computerizzata (tomografia computerizzata, tomografia ad emissione di positroni, risonanza magnetica, tomografia a emissione di un singolo fotone) consente di vedere in tempo reale le zone del cervello che si attivano in risposta a determinati stimoli. Quando riusciremo a comprendere i principi che sottendono le funzioni cerebrali e a costruire nanocomputer, il giorno delle neuroprotesi sarà vicinissimo. A quel punto, non potremo più limitarci ad affermare l’intimità tra il nostro corpo e la tecnologia: quello delle neuroprotesi sarà il giorno in cui assumeremo il pieno controllo di noi stessi, e non ci saranno più barriere, se si escludono le leggi della natura, al potenziamento personale.

Prendendo in considerazione questa breve panoramica, sorgono inevitabili alcune domande di carattere morale. Come dobbiamo giudicare l’uso delle nuove tecnologie volto a soddisfare il trittico di ancestrali desideri di lunga vita, felicità e potenziamento? Fino ad oggi questi desideri sono rimasti nell’utopia e nell’escatologia, nel mito e nella leggenda. Molte persone li hanno perseguiti e molti mezzi, più o meno improbabili, sono stati escogitati, ma con quali conseguenze sui nostri valori? Presto l’umanità avrà a disposizione nuove sostanze portentose e il nostro corpo potrà sperimentare inaudite forme di ibridazione con l’inorganico. Questi mezzi biotecnologici comportano anche nuovi problemi morali o non c’è niente di nuovo sotto il sole? Io credo che, ancora una volta, la tecnologia si rivelerà essere una leva conoscitiva, utile per mettere in luce aspetti della nostra esistenza e dei nostri valori che fino ad oggi erano rimasti sepolti.

Capitolo 3. Coordinate morali

3.1 Il punto di contatto

Come abbiamo visto, le tecnologie NBIC offrono indubbiamente grandi possibilità e lasciano intuire che, almeno nelle società più ricche, sempre più persone saranno in grado di realizzare alcuni dei sogni più antichi e diffusi della nostra storia. Eppure subito s’intravedono dei problemi, delle ragioni per dubitare che la vita sarebbe veramente migliore se utilizzassimo indiscriminatamente le nuove tecnologie per soddisfare i nostri più profondi desideri: in risposta ai progressi della ricerca e ai voli d’immaginazione, più o meno fantascientifici, spiccati insieme da certa stampa sensazionalista e dai profeti del postumano, si è sollevato un coro di voci che spazia dalla filosofica prudenza all’allarmismo distopico. La curiosità è che questa manifestazione collettiva si muova trasversalmente tra posizioni molto diverse l’una dall’altra; anzi, forse è possibile affermare che alcune di esse trovino in questo dibattito l’unico punto di contatto.

Nei seguenti capitoli, spero, verranno alla luce la ricchezza di rimandi e la fertilità di pensiero della materia in esame, caratteristiche a prima vista così occulte da relegarla ai margini della riflessione pubblica contemporanea. Uno dei miei scopi principali è, infatti, proprio quello di mostrare il modo in cui un oggetto di discussione apparentemente così lontano dai problemi che impegnano la meditazione e il dibattito attuali sia invece un ottimo punto di accesso per smuovere alcune convinzioni portanti della modernità, non solo rispetto ai nostri mores, alle pratiche e ai giudizi etici, ma anche nei confronti del modus vivendi (la cui analisi però andrebbe inquadrata nella prospettiva più ampia di una vera e propria “filosofia della tecnologia”).

Prima di proseguire con l’analisi etica, credo sia opportuno tracciare alcune coordinate concettuali. Già ad una riflessione preliminare, infatti, ci si rende conto della grande complessità del tema preso in considerazione e della necessità di mettere ordine, il più possibile, tra i molteplici argomenti e controargomenti sollevabili, tanto a scapito quanto a favore delle pratiche di biopotenziamento.

3.2 Il desiderio di migliorarsi…

Nel capitolo precedente ho cercato di mostrare come la convergenza tecnologica in atto prometta dei risvolti epocali per la realizzazione dei desideri di lunga vita, prestazioni superiori e felicità, sogni che da sempre hanno accompagnato il genere umano. Sulla scorta di tale promessa, si è sollevato un acceso dibattito circa l’opportunità e la legittimità morale di applicare le tecnologie NBIC per potenziare i corpi e le menti di individui sani, dibattito che vede contrapporsi due grosse fazioni eterogenee. Da una parte troviamo il coro variegato di persone che ritengono quantomeno legittimo, se non addirittura doveroso, cercare un miglioramento personale e collettivo attraverso i biopotenziamenti: anarco-capitalisti, tecnofili, trotzkisti, socialdemocratici, cultori delle diversità, “psiconauti”, scienziati, eccetera. Secondo costoro, oggi un’etica del biopotenziamento è utile e necessaria per comprendere meglio il modo in cui lo sviluppo tecnologico, cambiando l’ambiente in cui viviamo, può influire anche sulle nostre convinzioni morali, fino al punto di mettere in discussione la gerarchia di valori morali acquisita. Questo partito “bioprogressista” resta diviso e niente affatto unanime su molte questioni, però credo sia possibile, senza far torto ad alcuno, accomunarlo tutto intorno alla Massima Centrale del Transumanismo38:

MCT: è etico e desiderabile utilizzare mezzi tecnoscientifici per superare la condizione umana (data).

Questa formulazione è volutamente generica, e in effetti può essere interpretata in modi alquanto diversi, ma riesce comunque mettere in evidenza la questione essenziale. Infatti, per quanto sia possibile intendere il “superamento” in molti modi e per quanto non esista una definizione univoca di “condizione umana”, il potere di rottura della MCT è evidente: facciamo bene ad applicare su noi stessi le tecnologie NBIC, modificando e potenziando il nostro corpo e la nostra mente anche fino al punto di renderci irriconoscibili e, apparentemente, non più “umani”, ma genericamente “postumani”.

Il grosso punto in sospeso lasciato dalla MCT sta tutto nel significato di quel “superare la condizione umana”, e infatti i dibattiti interni alla fazione bioprogressista ruotano soprattutto intorno alla direzione da intraprendere nell’applicazione dei biopotenziamenti. Spero che nel corso della mia trattazione possa delinearsi, se non proprio una risposta, quantomeno una chiarificazione del grande valore conoscitivo insito nel porsi una domanda del genere. La mia tesi centrale infatti è che proprio il desiderio alla base della MCT abbia il potenziale di condurci verso una migliore comprensione di ciò che significhi “essere umani”, usando come leve epistemiche proprio le nuove tecnologie del potenziamento. Ma non voglio anticipare troppo. Quello che ora serve è una delucidazione, da considerarsi preliminare, dei termini in gioco.

Superamento: Chi sostiene la MCT assume che i biopotenziamenti siano interventi volti al miglioramento dell’individuo, quindi il superamento dev’essere inteso come un’azione a fin di bene che avvia l’uomo in un percorso teso al progresso generale del proprio organismo. Ma come si configura questo miglioramento? I binari sui quali procede l’evoluzione dell’uomo biopotenziato sono sostanzialmente due: da una parte c’è l’esigenza generale di aumentare il controllo sulla psiche e sul corpo, dall’altra c’è il desiderio di raggiungere un globale incremento di potenzialità (o potenziamento).

Controllo sulla psiche e sul corpo: Le nuove tecnologie NBIC consentiranno un controllo senza precedenti sul corpo e sulla psiche umani. La prima condizione da evidenziare al proposito è che, per poter assumere il controllo del nostro corpo, questo dev’essere visto come un oggetto, oggetto della nostra conoscenza e delle nostre azioni. Ovviamente però esso non è assimilabile a una mera “cosa”, un ente qualsiasi dell’universo conoscibile: il corpo è parte della nostra identità personale e assumerne il controllo significa poter aumentare la propria autonomia e la propria indipendenza. Il problema etico per quanto riguarda questo aspetto del superamento scaturisce dalla tensione tra la spinta verso una maggiore autonomia individuale, tipica delle moderne società democratiche, e l’esigenza di conservare la compattezza del tessuto sociale a fronte del crescente sgretolamento di alcuni valori tradizionali.

Potenziamento: L’altro volano del superamento è il desiderio di aumentare le facoltà del nostro corpo e della nostra psiche. Questo desiderio ha origine nella percezione di alcuni limiti organici ben precisi: la degenerazione del corpo durante l’invecchiamento, l’inadeguatezza sociale e/o individuale delle prestazioni psicofisiche, l’incapacità di gestire le nostre emozioni e il nostro umore. Il biopotenziamento delle caratteristiche naturali si propone come atto di emancipazione universale, schietto miglioramento delle condizioni di vita dell’intera società, una sorta di “utopia debole” nella quale a ognuno è riconosciuto il diritto di partecipare allo sviluppo generale. Ma come tutti i miti di progresso, il potenziamento dell’umanità porta con sé un nodo di problemi non trascurabili: siamo sicuri che la direzione da intraprendere sia quella giusta? Non corriamo forse il rischio di compromettere alcuni valori a noi cari e di degenerare in una forma di esistenza meno degna di essere vissuta?

Condizione Umana: Una discussione esauriente sul concetto di “condizione umana” meriterebbe un lavoro specifico e di certo non può trovare spazio in questa tesi. Quello che ora interessa è chiarire cosa s’intenda nella MCT con questa espressione, per evitare che nel dibattito si confondano prospettive di diversa ampiezza. Sono sostanzialmente due le prospettive dalle quali ci si può muovere per valutare l’opportunità del superamento:

    Da un punto di vista più immediato e particolare, la condizione umana è la situazione psichica, fisica e sociale di un singolo essere umano. In questo senso la MCT dev’essere intesa come una massima morale che ci autorizza a usare i mezzi tecnologici per ottenere un miglioramento personale.

    Da una prospettiva antropologica e generale, può essere intesa come la situazione dell’intera “umanità”, e quindi il miglioramento della condizione umana viene a coincidere col progresso della nostra specie. Questa accezione del termine ha forti implicazioni sia etiche che epistemologiche, perché porta con sé la necessità di stabilire un insieme complessivo di differenze e caratteri specifici atti a distinguere ciò che è umano da ciò che non lo è.

La correlazione incrociata tra queste diverse concezioni dei termini in gioco lascia aperte molteplici possibilità, e infatti il movimento bioprogressista si configura più che altro come un contenitore di pensieri diversi e, su molti punti, pure incompatibili. Nella presente trattazione mi limiterò a considerare la prospettiva bioprogressista in generale, evitando il più possibile di scendere nei dettagli delle singole correnti ad essa interne, ognuna delle quali meriterebbe una sezione a parte per sondarne la profondità e la persuasività.

3.3 … e la morale di una società democratica

Veniamo ora alla prospettiva “bioconservatrice”, ironicamente denominata “bioluddista” dai suoi detrattori. Anche questo partito è alquanto eterogeneo e comprende persone di varie fedi religiose, ambientalisti, no-global, femministe, difensori dei diritti delle persone diversamente abili, la Destra Cristiana, eccetera, ma credo di poter affermare che sia accomunabile attorno a un generale rifiuto della MCT. Le motivazioni dello sdegno sono molteplici e le approfondiremo in seguito, ma in linea generale tutti i bioconservatori pensano che le tecnologie per il potenziamento umano debbano essere rigidamente limitate ai soli scopi terapeutici e, nel caso in cui non possano servire in ambito clinico, addirittura bandite. Secondo costoro è moralmente sbagliato e/o troppo pericoloso voler migliorare il proprio organismo per mezzo della tecnica, sia perché ci sono dei limiti morali ben precisi a ciò che una persona può fare col proprio corpo, sia perché le nuove tecnologie comportano rischi che, su vasta scala e a lungo termine, potrebbero risultare catastrofici. Il desiderio di superare la condizione umana potrebbe avere conseguenze deleterie su alcuni valori fondamentali, quali l’identità personale e la natura umana, e l’uso massiccio delle nuove tecnologie potrebbe recare effetti malsani sulla società nel suo complesso.

Nel corso dei seguenti capitoli confronterò la MCT con le varie critiche sollevabili, cercando di trarre un bilancio tra i problemi e le opportunità offerti dalle tecnologie NBIC. A tale scopo mi lascerò condurre dal rapporto Beyond Therapy: Biotechnology and the pursuit of happiness pubblicato nel 2003 dal President’s Council on Bioethics americano (d’ora in poi PCB), un vero e proprio compendio di argomenti espressamente escogitati per sollevare la pubblica preoccupazione nei confronti del biopotenziamento. Il PCB fu istituito nel 2001 dal presidente degli USA George W. Bush per fornire una consulenza sui temi bioetici interessati dallo sviluppo delle scienze e delle tecnologie mediche e annovera molte personalità intellettuali e scientifiche impegnate a sostenere un atteggiamento di estrema cautela nei confronti delle nuove tecnologie.

3.4 Etica pubblica ed etica privata

Ora, nel valutare la portata morale dei biopotenziamenti dobbiamo distinguere due classi di risvolti: quello personale e quello sociale. La necessità di questa distinzione sta nell’esistenza dello spazio di autonomia individuale aperto dalle società (di diritto); cioè, solo se siamo disposti ad ammettere una separazione compatibile tra valori pubblici e valori privati, e riconosciamo alle persone adulte l’autonomia nelle scelte morali, possiamo affrontare con ragionevolezza il problema del biopotenziamento.

Per quanto riguarda il risvolto pubblico o morale di un’azione, la riflessione deve limitarsi a considerare la coerenza dell’azione stessa (in questo caso, del biopotenziamento) con i principi fondamentali di apertura (libertà, tolleranza) di una società democratica, procedendo all’analisi critica degli effetti che la diffusione del biopotenziamento potrebbe avere sul costume e sulle pratiche effettive della collettività.

Per quanto riguarda invece il risvolto individuale o privato, l’etica non può far altro che invitare i singoli individui alla riflessione, esplicitando tutte le implicazioni del biopotenziamento sui valori di riferimento personali.

Nel primo ambito, la ragione pratica può e deve condurci all’elaborazione di massime per la condotta collettiva, e può anche sollevare pretese in ambito politico o giuridico. Nel secondo ambito invece dovrebbe contribuire a illuminare il percorso di chi resta immobile nella paura o nel dubbio, e a coltivare d’altra parte lo spirito critico di chi procede con miope sicurezza, cercando di mettere in luce le eventuali contraddizioni, i principi di fondo, i vantaggi e gli svantaggi del relazionarsi con le nuove tecnologie del potenziamento.

3.5 Obiezioni di principio e obiezioni di prudenza

Il modo più semplice per rappresentare l’arena dello scontro tra chi difende la libertà individuale di biopotenziarsi e chi invece motiva la necessità di porre limiti e divieti a questo tipo di pratiche, è dividere le obiezioni in due grandi gruppi: da una parte ci sono le analisi critiche tese a valutare i rischi pubblici delle tecniche in questione, la possibilità di usi distorti e deleteri per il tessuto sociale e il modo in cui prevenirli; dall’altra invece stanno quegli argomenti sollevati per evidenziare come i biopotenziamenti e la MCT siano intrinsecamente immorali.

Gli interventi polemici del primo gruppo, che per comodità possiamo chiamare obiezioni “di prudenza”, non mettono in discussione la liceità morale del desiderio di superare la condizione umana, ma sollevano il dubbio sugli usi e i rischi associati alle tecniche utilizzate per soddisfarlo. Queste critiche tendono a pronosticare gli effetti (soprattutto quelli a lungo termine) recati dalla massificazione delle pratiche di biopotenziamento e sono strettamente legate alle concrete possibilità aperte dallo sviluppo tecnoscientifico. Ora, le obiezioni di prudenza possono essere usate in modo corretto e in modo scorretto. Esse sono utili quando vogliono stimolare a riflettere prima di agire e a escogitare in anticipo soluzioni per prevenire eventuali problemi di nuovo tipo. Ma diventano fallacie logiche quando sono presentate sotto forma di pendii scivolosi, e pretendono di sostenere l’inevitabilità di una catena di eventi (che puntualmente arrivano alla catastrofe) solo sulla base di congetture. In questo caso più che richiami alla cautela, esse diventano mere profezie di sventura volte a suscitare in chi le ascolta un istintivo rifiuto, con la speranza di chiudere il discorso ancor prima di averlo iniziato. È per questo che le tratterò per ultime.

Comunque, anche se le preoccupazioni prudenziali fossero fugate dagli eventi (nuove scoperte scientifiche che eliminano effetti collaterali indesiderati e nuove leggi per prevenire l’uso distorto delle tecnologie), resterebbero in vita le vere o presunte minacce che il biopotenziamento può arrecare ad alcuni valori fondamentali della nostra civiltà. Un’obiezione è “di principio” quando condanna come immorale un’azione in modo preliminare e incondizionato, accusandola di ledere un qualche valore superiore o addirittura di minare le basi della morale pubblica. È chiaro che, se si vuole rispondere ad argomenti di questo tipo sono poche le strade percorribili: o si mostra che l’argomento è inconsistente e contraddittorio, o si cerca di sostenere che il valore di riferimento minato dal biopotenziamento non è così centrale per la nostra società ed è invece relativo solo a certe tradizioni di pensiero (le quali, seppur legittime, non sono legittimate a delegittimare chi la pensa in modo diverso). Per inciso, quando i critici del biopotenziamento discutono preoccupazioni di principio, sembrano adottare un’altra prospettiva, meno analitica rispetto a quella a monte delle obiezioni di prudenza, e per lo più volta alla giustificazione di un istintivo sentimento di sdegno che certe applicazioni della biotecnologia possono suscitare in alcuni cittadini delle società liberali e democratiche dell’occidente contemporaneo. A mio modo di vedere, tale procedimento non è in sé errato, ma lascia spazio all’istanza fondamentale che viene sollevata dai sostenitori del biopotenziamento: forse, alla luce delle opportunità messeci a disposizione dalle nuove tecnologie, alcuni dei nostri valori tradizionali vanno davvero messi in discussione.

3.6 Bioetica e biopotenziamento

Un’altra considerazione da fare è che l’etica del biopotenziamento rientra a pieno titolo nella bioetica solo se siamo disposti a ricomprendere quest’ultima in un senso più ampio di quello in cui si è collocata storicamente. L’etica del biopotenziamento infatti, discostandosi dall’etica medica e ponendo al centro della sua riflessione la relazione tra “uomo” e “tecnologie NBIC”, è piuttosto un ambito di “etica della tecnologia” (o tecnoetica, che dir si voglia), anche se in un senso ben preciso.

Anzitutto l’uomo dev’essere inteso come agente morale autonomo, e perciò ho specificato che il biopotenziamento qui tematizzato è il frutto della decisione di una persona adulta, di un libero cittadino; inoltre, per quanto riguarda la tecnologia in generale, non viene qui intesa come un apparato a sé stante, una totalità dotata di senso proprio quasi come se esistesse a prescindere dall’uomo, una forza più o meno indipendente con la quale siamo costretti a relazionarci sempre con una certa dose di passività, bensì come quell’insieme di conoscenze, pratiche e strumenti applicabili più o meno direttamente dall’uomo stesso al proprio organismo.

Questo per chiarire che l’etica del biopotenziamento non riguarda, se non in modo contingente, i problemi etici posti dallo sviluppo della medicina, a dispetto di quei bioconservatori che proprio sul terreno della distinzione terapia/miglioramento vorrebbero impostare l’intera problematica. Come infatti cercherò di mostrare più avanti39, adottare una prospettiva medica non è il modo migliore per riflettere sulle conseguenze morali delle nuove tecnologie: se vogliamo districare meglio il nostro pensiero sul biopotenziamento, conviene fin da subito chiederci come l’uomo deve e non deve agire su se stesso (sul proprio organismo) avendo lo scopo di migliorarsi, senza perdersi nei meandri di quali siano gli scopi ultimi della medicina e quali i diritti e i doveri di un medico. Quindi, l’etica del biopotenziamento è a pieno titolo bioetica solo se quest’ultima si “allontana” dalla prospettiva clinica e viene considerata da un punto di vista più ampio quale l’indagine filosofica su come l’uomo deve e non deve agire in generale su se stesso (sul proprio organismo), date le crescenti possibilità offerte dal progresso tecnoscientifico.

Capitolo 4. Introduzione al transumanismo

4.1 La Dichiarazione Transumanista40

    In futuro l’umanità sarà radicalmente cambiata dalla tecnologia. Noi prevediamo la possibilità di riprogettare la condizione umana, inclusi certi parametri quali l’inevitabilità dell’invecchiamento, i limiti dell’intelletto sia umano che artificiale, il fatto che gli stati emotivi sfuggano al nostro controllo, la sofferenza e la nostra prigionia sul pianeta terra.

    È necessario uno sforzo di ricerca sistematico per comprendere i venturi sviluppi e le loro conseguenze a lungo termine.

    I transumanisti pensano che, se saremo disposti ad accettarle invece di metterle al bando, avremo maggiori possibilità di sfruttare a nostro vantaggio le nuove tecnologie.

    I transumanisti difendono il diritto morale, per coloro che lo desiderano, di usare la tecnologia per ampliare le proprie capacità fisiche e mentali, e per estendere il controllo sulla propria vita. Aspiriamo a una crescita personale che vada oltre i nostri limiti attuali.

    Per prepararsi al futuro, è d’obbligo prendere in considerazione la prospettiva in cui il progresso tecnologico subirà un’intensa accelerazione. La perdita dei potenziali benefici per colpa di proibizioni non necessarie e di un’immotivata tecnofobia sarebbe una tragedia. D’altra parte, sarebbe una tragedia anche se la vita intelligente si estinguesse a causa di un qualche disastro o di una guerra resi possibili dalle tecnologie avanzate.

    Dobbiamo creare dei luoghi d’incontro nei quali le persone possano discutere razionalmente sul da farsi, e un ordine sociale adatto a mettere in pratica decisioni responsabili.

    Il transumanismo difende il benessere di tutti gli esseri senzienti (siano essi intelligenze artificiali, esseri umani, animali non umani e perfino le specie extraterrestri) e include molti principi dell’umanesimo laico moderno. Il transumanismo non sostiene alcun partito politico o programma politico.

4.2 I due momenti del transumanismo

Il transumanismo è una corrente di pensiero incentrata sull’idea che l’essere umano non sia il prodotto finale dell’evoluzione del genere Homo. Prendendo le mosse dalla coscienza dei limiti delle nostre capacità psicofisiche e dall’opportunità di utilizzare la tecnologia per evolverci al di là dell’essere umano così come lo conosciamo, questo movimento mira a raggiungere una forma di esistenza non altrimenti definibile che con il generico appellativo di postumana. Nel transumanismo sono identificabili due momenti:

Futurologia del biopotenziamento (evidente ai punti 1,2,5,6): è il momento, logicamente preliminare, teso allo studio, alla ricerca e alla riflessione sulle applicazioni, sia private che pubbliche, dei biopotenziamenti e sulle loro conseguenze. Fin da subito, nel transumanismo i biopotenziamenti sono percepiti come “mezzi per il superamento delle fondamentali limitazioni umane”41.

Razionalismo migliorista (espresso ai punti 3,4,7): è il momento valutativo e consiste nel sostenere la desiderabilità di un’alterazione, anche radicale, della condizione umana per scopi di miglioramento, “usando ragione e tecnologia”42. Qui per razionalismo bisogna intendere la convinzione per cui l’uso di una ragione laica e scientificamente avvertita sia tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per trascendere i limiti del proprio corpo e della propria mente. L’istanza migliorista invece, dev’essere intesa come la fede nella possibilità di un continuo progresso del mondo umano, che proprio nel suo evolversi darebbe sempre maggiore credibilità al miglioramento: si tratta di una tesi già rintracciabile nel pragmatismo di W. James e di J. Dewey, per i quali le condizioni specifiche esistenti in un dato momento, buone o cattive che siano, possono in ogni caso essere migliorate grazie ad un corretto uso della ragione. Tuttavia, per il transumanista il miglioramento si può ottenere soprattutto grazie allo sviluppo tecnologico e alla manipolazione tecnica del corpo umano e dell’ambiente in cui vive.

È evidente come la sensibilità transumanista abbia origine nella coscienza delle enormi potenzialità che il progresso tecnologico e scientifico stanno per dischiudere. Però, mentre buona parte del pensiero occidentale del secolo scorso ha interpretato l’avvento di tali possibilità attraverso una lente nichilista, denunciando l’apparente autonomia del processo tecnico come limite alla libertà individuale e la crescente sostituzione dell’ambiente naturale con l’ambiente manipolato come segno della prossima fine dell’uomo, il transumanismo riprende l’entusiasmo umanista, sostenendo con forza la necessità di una riappropriazione del mezzo tecnico volta alla creazione del meglio.

Ciò non esclude però, che il prezzo di questo dominio alla fine coincida (ironicamente o tragicamente dipende dal punto di vista) proprio con il superamento dell’uomo o comunque della sua attuale condizione. Non a caso la necessità del superamento è intrinseca allo stesso nome di questo movimento: il transumano è infatti un “umano in transizione”, una persona che si sta attivamente preparando a evolversi in un essere senziente completamente diverso e, per inciso, molto migliore.

Tale superamento nell’ottica transumanista appare tutt’altro che infausto: se la teoria di Darwin ci ha mostrato che la “natura umana è un lavoro in corso”43 allora non c’è più motivo di aggrapparsi a un superstizioso fissismo morfologico. Il nostro corpo non è più un dato da accettare per come lo abbiamo ricevuto dalla lotteria genetica, bensì un’espressione della propria identità, suscettibile di manipolazione autonoma. E, se i progressi scientifici ci mettono a disposizione la tecnologia adatta a soddisfare i nostri desideri di miglioramento, allora abbiamo il dovere razionale di intervenire per cambiare le cose, anche se finora le mutazioni sono avvenute solo tramite l’evoluzione naturale e quindi fuori dal nostro controllo. Caratteristica importante dell’essere in transizione è l’indeterminatezza del risultato: il postumano non è predeterminabile, almeno non nella sua forma specifica. Anzi, per quanto possiamo con una certa fermezza immaginarlo come una creatura molto longeva e provvista di capacità psicofisiche superiori rispetto a quelle umane, in vero esso non avrà una forma specifica proprio perché vivrà navigando in un mare di dinamicità esistenziale in cui egli stesso sarà il timoniere. Ecco come Roberto Marchesini descrive il “vero progetto postumanistico: superare l’omologazione della specie, ovvero l’unicità del progetto umano, per dar vita a una multiformità di subspecie umane più o meno differenti nelle funzioni, nei comportamenti, nelle vocazioni, nelle potenzialità percettive e cognitive. […] La categoria uomo si trasformerebbe in una famiglia, dove tra i singoli individui sussisterebbero solo somiglianze, con caratteri che si sovrappongono e si incrociano pur mancando di una caratteristica comune.”44

L’istanza migliorista sembra il punto critico di questa corrente di pensiero e non a caso si tiene a precisare che, da una parte “il transumanismo non implica l’ottimismo tecnologico”45 e che, dall’altra, non è una forma di religione, bensì una filosofia naturalistica46. Per questo, nei dibattiti transumanisti non dovrebbero trovare cittadinanza posizioni dogmatiche, bensì solo discussioni scientificamente e filosoficamente avvertite.

4.3 Storia del pensiero transumanista? Logica della transizione e logica della stasi.

“Il desiderio umano di acquisire nuove capacità è antico quanto la specie stessa. Abbiamo sempre cercato di espandere i confini della nostra esistenza, dal punto di vista sia sociale, sia geografico che mentale. Almeno in alcuni individui, c’è la tendenza a cercare un modo per aggirare ogni ostacolo e ogni restrizione alla vita e alla felicità umane”47.

Da queste felici frasi di Nick Bostrom, possiamo evincere due fatti: primo, il transumanismo nasce come corrente di nicchia e ciò non stupisce, perché, per quanto il desiderio di miglioramento sia rintracciabile nel corso dell’intera storia umana, in realtà solo poche persone hanno perseguito e tuttora perseguono attivamente un percorso di miglioramento; secondo, se un movimento di pensiero si dichiara portavoce di istanze antiche quanto l’uomo e addirittura radicate nel suo stesso modo d’essere, più che di una vera e propria storia è meglio parlare di antecedenti culturali rintracciabili nella storia del pensiero. “Le tradizionali religioni della trascendenza mostrano come il desiderio di superare l’invecchiamento, la sofferenza e la morte sia una delle aspirazioni fondamentali della cultura umana”48, scrive James Hughes ed è difficile dargli torto. Ma in che senso si può affermare che quella umana è già da sempre una specie in transizione?

Ovviamente il cambiamento di cui si parla non è quello storico-culturale. Per quanto il razionalismo migliorista sia una conquista dell’epoca moderna occidentale, quando i transumanisti pongono l’accento sull’Homo sapiens come “essere-in-transizione” volto al miglioramento, stanno in realtà indicando una caratteristica trascendente le sue vicende storiche. È come se il desiderio di migliorarsi fosse integrato nel nostro modo d’essere, nella nostra “natura”. Il come se qui è d’obbligo perché, come avremo modo di vedere più avanti49, ai sostenitori della MCT non conviene fare troppo affidamento sull’ipotesi, perché di questo in fin dei conti si tratta, che esista una natura umana.

Ora, ai fini del presente discorso, mi preme solo sottolineare che, se la nostra specie ha da sempre, ma in modo contingente coltivato il desiderio di migliorarsi superando i propri limiti, ciò non può in alcun caso essere portato come giustificazione a favore razionalismo migliorista (cioè del momento squisitamente valutativo del transumanismo). E questo non tanto perché ricadremmo nella fallacia naturalistica di appiattire la dimensione etica del dovere su quella fattuale dell’essere (problema che pur incontreremo più avanti, vedi §10.7), ma per il semplice fatto che identificare la transizione come una delle caratteristiche (se non la caratteristica) precipue della nostra specie sarebbe una riduzione, non solo ingiustificata, ma così falsante da alimentare sospetti d’ideologia.

Non si può negare infatti la persistenza, in noi stessi e nei nostri simili, di una logica precisamente antitetica a quella della transizione e della ricerca di un ideale miglioramento; un desiderio, altrettanto arcaico, di conservazione che ha sempre camminato a braccetto con la paura di cambiare. Sono innumerevoli e forse anche superflui gli esempi, storici e attuali, di questa istanza di staticità; la cosa importante, per il tema in questione, è tenere a mente che, nella nostra specie, logica della transizione e logica della stasi, desiderio di migliorarsi e paura di cambiare, progresso e conservazione, formano di fatto una polarità non trascurabile.

Pertanto, onde comprendere le opportunità offerteci dal desiderio di transizione, dobbiamo inquadrare nel discorso due altri fattori: primo, l’idea opposta, e cioè quella che interpreta l’uomo e il cosmo come dati fissi, immutabili nella loro forma; secondo, la dialettica tra questi due momenti, il termine medio che rende possibile il passaggio da una logica chiusa in modelli interpretativi innati, al desiderio di mutare prospettiva e mettere in discussione l’interpretazione acquisita. La mia speranza a riguardo è che sia possibile distillare una sintesi di quanto queste due logiche abbiano da offrire: da una parte l’anelito proattivo di un continuo scoprire e migliorarsi, dall’altra la cautela che nasce dal saper amare quanto di buono si ha (o si è, in questo caso). Curiosità e riflessione dunque, senza utopie e senza timori irrazionali.
Proprio perché la volontà di transizione non esaurisce di fatto l’essenza dell’uomo, non sorprende che il transumanismo si sia costituito in movimento: c’è un “altro” contro cui deve lottare per affermarsi. Nel 1998 viene fondata la World Transhumanist Association con lo scopo, non solo di diffondere e difendere queste idee, ma anche di farne “una disciplina accademica e scientifica rigorosa”50. Questa necessità a mio parere sorge ironicamente proprio dalla prospettiva migliorista: la desiderabilità del biopotenziamento, avendo risvolti morali, è per forza di cose anche argomento politico. E per non confondersi con la moltitudine di movimenti e nuove religioni che cavalcano le variegate onde di desideri escatologici, tipici del relativismo in cui annaspiamo, il dibattito sul tema della transizione al postumano deve sempre ben arroccarsi su posizioni laiche.

4.4 Centro e direzione dell’espansione transumanista

Ma ciò non basta: siccome le scoperte scientifiche aprono molti percorsi senza indicare quale sia quello giusto da seguire, resta centrale la riflessione filosofica sul concetto di miglioramento, riflessione ancor più imprescindibile se si considera quanto sia rilevante per ogni corrente di pensiero progressista avere la forza della coerenza interna. Pertanto, oltre all’appello volto a tenere sotto supervisione le nuove tecnologie, oltre alla volontà di usare i biopotenziamenti per esercitare un maggiore controllo sul proprio corpo e la propria mente, resta ancora aperta la questione su quale sia la direzione che il miglioramento deve seguire.

Secondo alcuni transumanisti questa direzione è abbastanza ovvia. O meglio, più che ovvia, è per certi versi naturale e consiste nel varcare i nostri limiti congeniti: per migliorarsi e procedere verso il postumano dobbiamo assecondare quelle ancestrali esigenze di superare la nostra stessa natura manipolandola. Questo corso di pensiero non si limita dunque a sostenere la centralità della tecnica per la nostra sopravvivenza, ma si spinge a indicare proprio nel progresso tecnologico la strada per il miglioramento delle nostre condizioni (è importante comunque ribadire che il transumanismo non si pone come un’escatologia tecnoentusiasta, essendo ben motivato a portare una stretta critica all’apparato tecnoscientifico).

Il centro dell’espansione transumanista è l’esperienza esistenziale dell’individuo, la biografia personale di ciascuno di noi. Proprio la coscienza dei nostri limiti ci fa intuire che “il ventaglio di pensieri, emozioni, esperienze e attività accessibili all’organismo umano costituisce probabilmente solo una piccola parte del possibile”51. I limiti, nel concreto, sono evidenti a tutti: la durata della vita è sempre troppo breve, le nostre capacità intellettuali sono fin troppo limitate, le funzioni corporee spesso determinano al ribasso la qualità della nostra vita, i sensi che abbiamo operano entro uno spettro di stimolazioni suscettibile di sostanziali ampliamenti, non abbiamo il controllo sul nostro umore. Sono queste le barriere da superare per migliorarsi.

E qui siamo anche, a mio parere, al limite di questa corrente di pensiero. Il transumanismo afferma infatti la possibilità (a volte senza mezzi termini la necessità) di sfruttare le capacità di controllo forniteci dalla tecnologia per realizzare quei desideri fin troppo umani di trascendenza, di divenire altro che umano. Però, quando scrivono dei loro antecedenti culturali, i transumanisti tentano di mostrare quanto umana sia la volontà di trascendere i limiti umani: dall’Epica di Gilgamesh dove si racconta di un re in cerca dell’immortalità fisica, all’Orazione sulla Dignità dell’Uomo, nella quale, alla fine del xv secolo, Pico della Mirandola sosteneva che l’essere umano non avesse una forma predefinita bensì la potenzialità di rinascere in forme più elevate. Ma per l’appunto: se vuole prendersi sul serio il pensiero transumanista deve essere onestamente aperto a mettere in discussione proprio la forma del migliorarsi e quindi anche la forma tecnica di migliorarsi, cioè l’opportunità stessa del biopotenziamento.

Il transumanismo si mostra una corrente di pensiero ancora astratta e in via di consolidamento. Vive nella tensione interna di coniugare l’istanza profondamente laica maturata a partire dall’umanesimo razionale, che con Francis Bacon voleva ottenere il controllo della natura per migliorare le condizioni dell’umanità, con il coinvolgimento sociale e politico che le impone una maggiore concretezza etica. I modi di migliorarsi sono infatti molteplici e non sempre vanno d’accordo e non a caso buona parte del dibattito transumanista verte sul contrasto politico tra correnti di varia estrazione culturale: si va dai sovrumanisti agli estropici, dagli iperumanisti ai postumanisti, dal transumanismo socialdemocratico di Hughes a quello anarcocapitalista di More.

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Sezione Seconda: Due argomenti preliminari

Sezione Terza: Obiezioni di Principio

Estropico