Università degli Studi di Pisa
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Anno Accademico 2005-2006

Vincenzo Russo

Più che Umani

La Bioetica filosofica e le tecnologie del potenziamento psicofisico


Relatore: Prof. Sergio Bartolommei


Sezione Quarta: Obiezioni di prudenza

In quest’ultima sezione passerò in rassegna i motivi di preoccupazione più rilevanti legati all’uso e alla diffusione su larga scala delle tecnologie per il potenziamento umano.  

Capitolo 11: Effetti collaterali indesiderati: il biopotenziamento e i rischi per la salute.

11.1 Un problema di sicurezza

Uno dei motivi di preoccupazione più concreti attinenti alle pratiche di biopotenziamento è quello di incorrere in effetti collaterali indesiderati per la salute. In linea generale infatti, da un punto di vista medico, nessun biopotenziamento, come per altro nessun tipo di intervento più o meno invasivo sul corpo, può essere considerato al cento per cento esente da rischi. L’esempio più attuale è forse quello degli steroidi per il potenziamento della massa muscolare, i cui effetti collaterali negativi sul sistema cardiocircolatorio hanno portato alla morte prematura più di un culturista; ma analoghi timori possono essere suscitati dagli psicofarmaci o dai vari tipi di interfacce uomo/macchina. Se si esclude l’ingegneria genetica, l’ambito di ricerca che solleva più timori è, ironicamente, quello ancora tutto da sviluppare delle nanoscienze e delle nanotecnologie. Al giugno 2006 risale un rapporto stilato dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che analizza i vari problemi etici relativi alla diffusione di nanoparticelle (ma il discorso può essere esteso anche alle nanomacchine) nell’ambiente. Oltre all’ovvia, ma fondamentale, questione della tolleranza con cui il corpo umano può caricarsi di agenti esterni così piccoli, il CNB mette anche in luce quello che forse è l’aspetto più trascurato dai bioprogressisti, e cioè la difficoltà materiale nella gestione delle nanoparticelle. La manipolazione di sostanze (o macchinari) così piccole necessiterebbe di rigide misure cautelative, onde evitarne la diffusione nell’ambiente e nell’atmosfera. Come fa notare il rapporto:

“La fisica ha da tempo dimostrato che le polveri ultrasottili sono tenute in sospensione dal moto browniano: esse, pertanto, non sono soggette a caduta inerziale o a sedimentazione e tendono a permanere indefinitamente sospese nell’aria, da cui sono rimosse soltanto dalle correnti o dalle piogge.”192

Inoltre, in caso di diffusione accidentale di nanoparticelle potenzialmente dannose, bisogna preventivare già in fase di progettazione la difficoltà che le loro dimensioni comportano in fasi delicate quali il rilevamento e la neutralizzazione. Questo a maggior ragione se le nanomacchine, per esigenze di semplicità o operatività, non sono in qualche modo biodegradabili e possono creare il rischio di grave e persistente inquinamento.

Non c’è dunque da stupirsi se sembra facile portare un attacco generale alle nuove tecnologie per il potenziamento puntando il dito contro paventati effetti catastrofici che queste avrebbero sulla nostra salute (o su quella dell’ambiente). Questo ci impone il dovere di considerare e valutare l’evenienza che un massiccio intervento tecnico sul corpo umano a scopo migliorativo possa causare dei gravi effetti collaterali per la salute, sia personale che collettiva. Come ragionare in proposito?

Prima di tutto bisogna notare che questo tipo di preoccupazione può essere sollevato giocoforza solo contro due dei desideri presi in esame, quello di ottenere prestazioni superiori e quello di raggiungere il benessere psicoemotivo. Il desiderio di prolungare la giovinezza implica quello di restare in salute ed è lecito presumere che tutti i biopotenziamenti sviluppati per soddisfarlo non comportino rischi gravi di questo genere, né a breve né a lungo termine.

Poi, per comprendere al meglio il problema conviene affrontarlo seguendo due approcci: uno ristretto alle conseguenze dirette sulla salute del fruitore di biopotenziamenti, l’altro, più generale, inteso a salvaguardare la sicurezza della società nel suo complesso. Da una parte dobbiamo metterci nei panni del libero cittadino che, nel pieno delle sue capacità decisionali, sceglie il biopotenziamento per migliorare le proprie capacità psicofisiche e valutare fino a che punto conviene accettarne i potenziali rischi; si tratta quindi di una questione di etica privata, ambito in cui possiamo solo limitarci ad indagare la compatibilità tra l’atto e i valori condivisi dal tessuto sociale in cui esso avviene. Dall’altra invece dobbiamo assumere il ruolo più proprio del bioeticista, e cercare di capire quali principi applicare per ridurre al minimo i rischi per la sicurezza della società intera, e quali strategie adottare per trarre il maggior numero di benefici su larga scala.

11.2 Il principio di precauzione della salute personale

Ora, schematizziamo il ragionamento di partenza chiedendoci qual è la condizione di possibilità per sollevare un allarme sulla sicurezza della salute:

* in un sistema organico, l’azione diretta su una parte avrà sempre effetti collaterali sulle altre parti ad essa strutturalmente connesse e, indirettamente, sul sistema nel suo complesso
* il corpo umano è un sistema organico di cui, allo stato attuale, conosciamo solo parzialmente il funzionamento
* il biopotenziamento è un’azione diretta (e limitata) ad una parte perché è un intervento focalizzato all’aumento di una facoltà prestabilita
* ora, proprio a causa della nostra parziale conoscenza del corpo umano, non possiamo di fatto prevedere tutti gli effetti di un biopotenziamento, quindi non siamo mai esenti dal rischio d’incorrere in effetti collaterali negativi per la salute

In base a ciò, possiamo forse giungere alla conclusione che, siccome non conosciamo tutti gli effetti dei biopotenziamenti sulla nostra salute, soprattutto quelli a medio e lungo termine, allora dovremmo astenerci completamente dal soddisfare i nostri desideri di miglioramento personale con i mezzi tecnoscientifici?  Io non credo. Se la minima possibilità di rischio dovesse sempre impedire un intero corso d’azione, sarebbero ben poche le attività (anche quotidiane) che svolgeremmo e ancora meno i progressi che otterremmo. Riflettere sugli azzardi a cui andiamo incontro quando ricerchiamo e applichiamo gli ultimi ritrovati della tecnologia, è un’ottima scelta di razionalità e ci impone certamente di adottare un atteggiamento di prudenza e riduzione del rischio, ma non implica il totale rigetto del nuovo. Le ricerche coinvolte nelle tecnologie NBIC a scopo migliorativo si muovono di fatto in un contesto medico altamente controllato e, a meno che non vengano messe al bando e relegate alla clandestinità, non c’è motivo di temere alcunché; in secondo luogo, nulla toglie che il progresso tecnologico e scientifico aiuterà a prevedere e limitare gli effetti indesiderati dei vari biopotenziamenti.

Il problema per l’etica privata sorge allora solo quando adottiamo anche la seguente massima:

Principio di precauzione della salute personale: incorrere coscientemente nel rischio di menomare la propria salute per motivi futili è moralmente ingiustificabile.

A prima vista questa regola ci sembra pienamente condivisibile, ma, ad un’analisi più attenta, scopriamo che solleva più problemi di quanti ne risolva (non a caso è una forma del principio di precauzione). La prima cosa da notare in proposito è che molte attività, anche quelle gratuite, o meglio “ludico-ricreative”, come certe discipline sportive, sono intrinsecamente pericolose: anzi, come visto nel capitolo 7 a volte sono proprio il disprezzo del pericolo e la temerarietà ad essere ammirate e nobilitate nell’attività umana. In ogni caso, dal momento che sembra impossibile distinguere in modo netto e definitivo tra discipline innocue e discipline pericolose, ci troviamo in un punto di stallo. Potremo dare dell’incosciente a tutti i paracadutisti sportivi, ma a quel punto anche la discesa libera con gli sci sembrerebbe non meno azzardata. Perché condannare il rischio a cui si sottopone qualche pioniere del biopotenziamento e tollerare tutte le altre attività potenzialmente letali?

Questa domanda ci porta direttamente al secondo punto dolente, quello sollevato dall’espressione “per motivi futili”: se il principio di precauzione fa riferimento alle motivazioni dell’agente, significa che la sua validità è relativa alle speranze e alle convinzioni di ognuno e, pertanto, può al massimo funzionare da provocazione d’apertura per un dibattito su cosa sia un motivo “futile” e cosa no. Nel nostro caso penso sia plausibile assumere che chi si sottoponga a un biopotenziamento possa farlo per dei motivi niente affatto futili, primo fra tutti la speranza di ottenere un concreto miglioramento della propria condizione esistenziale. Analizzerò più a fondo la questione nell’ultimo capitolo.

Per adesso la cosa importante è sottolineare come il principio di precauzione sia riducibile a un puro e semplice, seppur importante, consiglio di carattere prudenziale. Ognuno infatti ha il diritto di valutare cosa sia giusto sacrificare in vista di determinati risultati: per esempio, nessuno dovrebbe sentirsi autorizzato a obbligare una persona molto studiosa a limitare le ore passate sui libri con la scusa che così facendo corre il rischio di menomare la propria salute. Sarebbe come affermare che in fin dei conti c’è un modello di vita ottimale unico per tutti.

Il problema etico in questo caso si riduce a un problema di limite: fino a che punto è legittimo sacrificare la propria salute e la propria incolumità pur di migliorarsi? Secondo i bioconservatori la risposta è ovvia: fino al punto per andare oltre il quale saremmo costretti a impiegare biopotenziamenti. Ora però la scelta di questo limite pone due grossi dubbi. Anzitutto, si tratta di un’opinione che può quasi sempre essere contenuta all’interno della sfera privata, purché siamo disposti ad ammettere che una persona adulta e beneficiaria di diritti sia anche padrona della propria vita. Dal punto di vista morale, infatti, l’autodeterminazione e la libertà di perseguire la propria concezione di vita, sono valori troppo importanti per essere sottoposti all’ingerenza invadente dello stato o di qualsiasi altro organo di potere. Pertanto, il principio di precauzione può solo servire come avvertenza di carattere prudenziale. In secondo luogo, stabilire il biopotenziamento come limite morale sembra una scelta alquanto arbitraria, dal momento che questo tipo di tecniche non sono intrinsecamente più pericolose di altre. Anzi, nell’ottica transumanista una delle motivazioni portanti a favore dell’utilizzo delle nuove tecnologie è proprio la speranza di poter migliorare la nostra salute.

Ciò detto, bisogna anche ammettere che la questione può contribuire quantomeno a sollevare due ordini di problemi non trascurabili. Per quanto riguarda l’etica “privata”, la critica del PCB, per quanto non sia capace di ottenere i risultati sperati, finisce lo stesso per aprire una importante questione circa la concordanza tra il desiderio di potenziarsi e l’effettivo miglioramento delle proprie condizioni di vita: fino a che punto il biopotenziamento personale è realmente ciò che ci serve per vivere meglio? Ovvero, se la massima di precauzione della salute personale ha un merito, è quello di sollevare il dubbio sul modo in cui usiamo (noi, membri di società tecnologicamente avanzate) la tecnologia e, a un livello più generale, sull’efficacia delle direzioni in cui cerchiamo un miglioramento.

Se invece la critica bioconservatrice basata sul rischio per la salute pretende di estendersi all’intera comunità morale, corre il rischio di scadere in un indebito richiamo al conformismo. In ultima istanza, essa sembra infatti motivata dalla paura più che dalla ragione, dal pregiudizio più che dall’interesse conoscitivo: l’imprevedibilità di quelle che sono percepite come “nuove diavolerie”, unita al rimprovero di chi sopravvaluta lo sviluppo tecnoscientifico come fonte di benessere. L’importante a tal proposito è rifiutare l’arroccamento nella posizione conservatrice per la quale le cose “vanno già bene così come sono” (e in seguito vedremo un argomento studiato proprio per mettere in crisi una volta per tutte questa posizione). Anche e soprattutto per quanto riguarda la salute, la convergenza delle tecnologie NBIC potrà fornire grandi risultati, ed è impossibile pensare sul serio di rinunciare a tale possibilità solo per paura di cambiare. È anche vero che lo sviluppo di nuove tecniche non implica necessariamente un reale progresso, ma tale discordanza deriva soprattutto dal cattivo uso che ne facciamo.

In conclusione, non è possibile sollevare un argomento specifico per condannare il biopotenziamento dal punto di vista della salute personale. Si può fare una cosa del genere solo argomentando contro il desiderio di migliorarsi tout court, a prescindere dalla tecnica utilizzata, sostenendo che è irrazionale, e per certi versi immorale.  

11.3 Questo biopotenziamento nuoce gravemente alla salute

D’altra parte, sebbene ognuno debba essere libero di decidere cosa sacrificare in vista dei propri scopi, la salute personale è parzialmente anche una questione pubblica e di conseguenza può, entro certi limiti, rientrare nella sfera normativa di una società. Dobbiamo soffermarci quindi sulle ripercussioni che le pratiche di biopotenziamento possono avere sulla salvaguardia della salute dei cittadini. In questo caso l’argomento più condivisibile è, a mio modo di vedere, riconducibile a quello che sta alla base di molte leggi sull’incolumità delle persone, e cioè che lo Stato ha il compito di tutelare la salute del singolo cittadino anche tramite coercizioni (come l’obbligo di allacciare le cinture di sicurezza in auto, o il recente divieto di fumare in edifici aperti al pubblico). Se questo tipo di leggi è moralmente accettabile in una società aperta, diventa poi alquanto difficile argomentare contro una regolamentazione pubblica volta a salvaguardare la salute del cittadino beneficiario di biopotenziamenti.

Per affrontare al meglio il problema della sicurezza dei biopotenziamenti, credo sia imprescindibile seguire la definizione di “salute” data dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità: non è sufficiente prendere in considerazione solo il benessere fisico del cittadino, perché anche le condizioni psichiche e le opportunità sociali rivestono una fondamentale importanza nella vita di una persona. Questo ci spinge verso l’arduo compito di elaborare nuovi standard di sicurezza, che siano abbastanza comprensivi da includere caratteristiche recalcitranti alla definizione, perché o sono nuove e ancora ambigue, o sono strettamente legate alle convinzioni morali e politiche delle parti in gioco. Credo che la scelta dei parametri rilevanti debba essere pertanto guidata da una importante precauzione, e cioè quella che ci impone di evitare, per quanto possibile, qualsiasi deriva paternalista, e quindi limitare la portata delle norme al duplice compito di coadiuvare il singolo nelle sue scelte personali, tutelando al contempo l’incolumità della popolazione intera.

I mezzi per regolamentare i biopotenziamenti in relazione alla salute sono di vario tipo e agiscono su vari livelli193. Qui di seguito presento i tre che reputo imprescindibili:

Consenso informato: Come sostiene Parens194, bisogna elaborare nuove strategie educative per fornire ai singoli cittadini, fin da piccoli, gli strumenti per riflettere sull’opportunità del biopotenziamento. Dal punto di vista clinico, e ritornando alla concezione “liberale” del rapporto medico/paziente195, chi è adibito alla somministrazione dei biopotenziamenti deve anche assicurarsi il consenso esplicito e informato del soggetto fruitore. Riporto e condivido a tal proposito le opinioni proposte dal neurologo A. Chatterjee196 per questo tipo di problemi: discutendo di neurologia cosmetica, egli propone di rivalutare il ruolo dei neurologi e degli psichiatri come consulenti per la qualità della vita, il cui compito sarebbe quello di fornire un’informazione completa come supporto all’autonomia decisionale del paziente (ma a questo punto sarebbe meglio chiamarlo utente o consumatore). Questo nuovo ruolo potrebbe essere esteso anche alle figure professionali che si specializzeranno negli interventi di biopotenziamento. Inoltre, l’informazione su questi temi deve diventare un requisito propedeutico all’effettiva pratica migliorativa: questo significa anche che l’aspirante al biopotenziamento dev’essere messo in condizione di riconoscere, al meglio delle attuali possibilità, tutti i tipi di rischio a cui va incontro, inclusi quelli di carattere sociale.

Controllo a monte sulla sicurezza e l’efficacia: Prima di entrare in commercio, ogni singolo tipo di biopotenziamento deve passare il vaglio di un organo controllore, indipendente dagli interessi commerciali, né più né meno di quanto avviene già oggi con i farmaci. Come recita uno slogan di Hughes197, il problema con la sicurezza dei biopotenziamenti non è l’abbondanza di tecnologia bensì la mancanza di democrazia: questo significa che il vero pericolo non sta nei nuovi strumenti che la ricerca ci mette a disposizione, ma nella società di mercato che costringe la aziende a puntare innanzitutto e per lo più al profitto, anche a scapito della salute dei consumatori. D’altra parte è pur vero che la completa sicurezza resta un ideale. Per essere sicuri al 100% circa l’innocuità di una determinata tecnologia dovremmo poter prevedere senza fallo tutti gli effetti a lungo termine della sua applicazione e conoscere alla perfezione il funzionamento completo del corpo umano. Tuttavia, ciò non toglie che abbiamo il dovere di rafforzare gli organi di controllo pubblici e assicurarci soprattutto che questi siano indipendenti dai poteri privati interessati a influenzarne il lavoro. Oltre alla sicurezza, credo sia essenziale sottoporre al vaglio di un controllo istituzionale anche la reale efficacia delle varie tecniche, e questo per motivi di trasparenza e consenso informato: affinché la valutazione del consumatore sia valida, questi dev’essere pienamente cosciente non solo dei rischi a cui va incontro, ma anche delle reali opportunità che gli si aprono. Ovviamente, controllo sull’efficacia significa anche controllo sulla veridicità dei messaggi pubblicitari.

Coercizione legale (divieto/obbligo): Lo Stato deve disporre leggi atte a regolamentare la somministrazione di tutti i biopotenziamenti. Queste leggi possono spaziare dai divieti nel caso di tecnologie non ancora vagliate o palesemente troppo dannose, fino ad arrivare agli obblighi nel caso di biopotenziamenti che possono arrecare grandi benefici collettivi a un costo ragionevole (come avviene ad esempio con altri tipi di potenziamenti quali i vaccini e l’istruzione obbligatoria). In questo corpus legale deve trovare cittadinanza anche tutta la regolamentazione pertinente le figure professionali autorizzate a somministrare biopotenziamenti.

In conclusione, da un punto di vista morale, non c’è alcun valido motivo per rigettare a priori il biopotenziamento solo perché può generare rischi per la nostra salute. Gli effetti collaterali negativi possono (e devono) essere sottoposti a controllo, ma costituiscono un problema contingente.
Capitolo 12: Biosorveglianza, coercizione morbida e libertà morfologica

12.1 Sul filo del rasoio

È molto difficile prevedere tutti gli influssi che la diffusione su larga scala dei biopotenziamenti eserciterà sulla popolazione. La prima urgenza, se si accetta la legittimità di principio della MCT, è senza dubbio quella di proteggere la salute pubblica, adottando standard di sicurezza rigorosi e istituzioni atte al controllo delle nuove tecnologie. Queste iniziative si presentano al contempo ardue e inderogabili, sia perché devono intervenire a monte, cioè nelle fasi di ricerca e sperimentazione in atto, e quindi richiedono fin da subito un alto livello di conoscenze tecniche, sia perché sono destinate a procede sul filo del rasoio che corre tra il dispotico paternalismo dell’ingerenza in ambiti squisitamente privati e il lassismo foriero dei pessime lacune giuridiche già sperimentate nel nostro Paese (ad esempio nel vasto settore delle tecnologie dell’informazione).

Dopotutto, la convergenza NBIC andrà a creare nuovi strumenti di potere, e noi non dobbiamo esimerci dal prendere in considerazione l’eventualità che tali strumenti possano essere usati per limitare anziché favorire la libertà personale. Il pericolo ovviamente non si presenta solo sul piano governativo, dove la sicurezza pubblica di solito mal si separa dal controllo sociale, ma anche su quello delle organizzazioni private, dominato dagli interessi economici che tendono a creare nuovi mercati e a condizionare il maggior numero di consumatori senza alcun rispetto per la libera scelta individuale. Ora, per comprendere appieno il problema credo sia opportuno scindere due grossi ambiti in cui le nuove tecnologie per il potenziamento possono offrire il fianco a derive illiberali. Da una parte c’è il rischio che i nuovi mezzi vadano a compromettere la libertà negativa di chi ne fa uso o di terze persone. Qui gli esempi più concreti riguardano sia l’ingerenza che gli enti pubblici o privati in posizione dominante potrebbero avere sulla vita dei cittadini, sia la diffusione di quei biopotenziamenti utilizzabili per violare la riservatezza altrui. D’altra parte invece c’è il timore, sollevato dalla critica bioconservatrice, che la diffusione della mentalità transumanista possa aumentare la pressione sociale a favore dei biopotenziamenti, a tal punto da limitare la libertà positiva dei singoli cittadini. Seguendo questi due sentieri, vediamo cosa abbiamo veramente da temere, e cosa invece ci è lecito sperare.

12.2 Condizionamento e privacy

Le nuove forme di coercizione rese possibili dalle tecnologie NBIC di potenziamento derivano proprio dal più grande vantaggio che esse promettono: l’opportunità di estendere il controllo sul corpo e sulla mente umani in modo radicale. Se la nanomedicina consentirà il monitoraggio costante delle proprie condizioni fisiche, le informazioni da essa raccolte potranno essere utilizzate per esercitare pressione psicologica o tenere sotto controllo le persone. I computer indossabili e le interfacce uomo/macchina potrebbero servire per spiare gli altri con relativa facilità o per condizionare le scelte di chi se ne serve quotidianamente. I farmaci per il benessere emotivo o per il potenziamento cognitivo potrebbero essere appositamente progettati per causare dipendenza e assuefazione.

Ovviamente, il rischio dell’uso sbagliato di una nuova tecnologia non è sufficiente per vietarne la diffusione e privare la collettività dei suoi vantaggi. L’unica strada sembra allora quella di arginare gli illeciti, migliorando la legislazione e rafforzando gli organismi preposti alla garanzia dei diritti. A tal proposito un buon punto di partenza potrebbe essere quello suggerito dal “European Group on Ethics in Science and New Technology”, il quale, nell’opinione sugli aspetti etici dell’innesto di impianti informatici e cibernetici nel corpo umano198, suggerisce di estendere il concetto di individuo soggetto di diritti anche alle informazioni personali.

“Ogni intervento sul corpo e ogni elaborazione di informazioni personali devono essere considerati come se fossero relativi al corpo nella sua interezza, a un individuo che deve essere rispettato nella sua integrità fisica e mentale.”199

Proprio come la Magna Charta sanciva l’habeas corpus, il diritto di essere unici padroni del proprio corpo, così oggi c’è bisogno di rivendicare un “habeas data” come inalienabile diritto a essere ultimi gestori delle informazioni che ci interessano. In pratica ciò significa che

“L’individuo ha il diritto di determinare quali tra le informazioni che lo riguardano possono essere elaborate, da chi e per quali scopi. In particolare, è cruciale il diritto dell’individuo a decidere chi debba avere accesso a questi dati e per quali scopi.”200

Allo stesso tempo però siamo chiamati a prendere coscienza che il concetto stesso di corpo ormai sta cambiando: quello che prima era un dato naturale sta sempre più trasformandosi in uno spazio di espressione in costante mutamento. In questo l’EGE intravede il grande rischio di strumentalizzazione del corpo e quindi, implicitamente, di una deriva repressiva delle tecnologie di controllo.

“La totale riduzione del nostro corpo a dispositivo (device) non solo amplifica la tendenza a convertirlo sempre più in uno strumento che consente la sorveglianza continua degli individui. In effetti, gli individui sono espropriati dei loro corpi e quindi della loro stessa autonomia. Il corpo finisce per essere sotto il controllo di altri.”201

Questo rischio è senza dubbio fin troppo reale perché, nel momento in cui il corpo umano diventa pienamente controllabile, esso si rende affatto sorvegliabile e disponibile alla manipolazione esterna: per loro stessa costituzione, i biopotenziamenti, nonostante siano volti al miglioramento, aprono nuove vie di accesso al corpo, che possono facilmente essere sfruttate da terzi per fini indebiti.

Per fortuna la soluzione al problema della deriva illiberale proviene dalla stessa tecnologia che lo crea: il rischio dell’ingerenza esterna può essere scongiurato se si considera quanto facilmente le stesse tecnologie di controllo possano convertirsi in tecnologie per sfuggire al controllo. La prevenzione in tal senso può avvenire solo assicurando fin da subito il libero accesso ai biopotenziamenti, ed evitando il più possibile la formazione di oligopoli privati nella gestione e nella distribuzione delle nuove tecnologie. A ciò bisogna aggiungere il rafforzamento degli organismi pubblici preposti alla garanzia dei diritti individuali.

12.3 Il riduzionismo e la medicalizzazione dell’autocomprensione

Discutendo il valore morale dei mezzi (vedi infra cap. 6) ci siamo imbattuti nell’argomento della filosofa Carol Freedman finalizzato a metterci in guardia contro una descrizione troppo meccanicista della nostra vita emotiva. Secondo questa critica, il meccanicismo spinge le persone a dare di se stesse una descrizione in termini meramente biochimici, mettendo così in pericolo il concetto psicologico di identità personale, e il valore dell’autonomia ad esso legata. Sembra ovvio che, ad esempio, se posso dare del mio malumore una completa spiegazione in termini di scompensi ormonali, allora sarò indotto a considerare i miei problemi emotivi una forma di disfunzioni, delle anomalie trattabili in ambito clinico. Stando ad alcuni critici della MCT, il desiderio di avere un maggiore controllo sul proprio corpo o sul proprio stato d’animo contribuisce a spostare il modo in cui noi percepiamo la nostra identità verso questo tipo di prospettiva: a causa dei biopotenziamenti psichici, quelle che un tempo erano emozioni e passioni si dilegueranno un giorno in terminologie mediche e terapeutiche, col rischio di farci scambiare il dolore per una malattia e, di conseguenza, sminuire la dignità della nostra vita interiore. Questa medicalizzazione del concetto stesso di essere umano, preannuncerebbe la tragica prospettiva di una società in cui le afflizioni emotive e psichiche anche più comuni verranno interpretate come disfunzioni e trattate come tali. La conseguenza più significativa verte come abbiamo già visto sul valore della responsabilità morale: se certe mie pulsioni emotive sono da considerarsi malattie, allora io non sono pienamente capace di intendere e di volere, perché comunque agisco condizionato dal male che mi affligge; quindi potrei non dovermi sentire pienamente reo, poniamo, di un atto che io stesso reputo disdicevole. A tal proposito, non bisogna sottovalutare il ruolo che le imprese commerciali possono svolgere nella diffusione di questa mentalità, per esempio contribuendo ad aumentare la domanda per gli psicofarmaci ed esercitando una pressione indiretta verso l’ampliamento delle categorie diagnostiche. In modo particolare, continua la critica, questa tendenza ha e avrà sempre più via libera se la salute è concepita non come assenza di malattie, bensì come una “condizione positiva di benessere” (alla stregua insomma della definizione accolta dall’OMS).

Il problema posto dalla medicalizzazione è più grave di quanto possa sembrare a prima vista, e va oltre il falso alibi che una persona può sollevare a difesa della propria coscienza morale dopo aver commesso un atto indegno. Ritorniamo per un attimo al modello di assistenza medica proposto da Daniels, secondo il quale il sistema sanitario deve farsi carico di un compito morale, cioè quello di conferire a tutti i cittadini un’equa opportunità esistenziale, eliminando per quanto possibile tutte quelle differenze svantaggiose che compromettono il “funzionamento normale” dell’organismo. Abbiamo visto come il modello di Daniels spinga verso una certa normalizzazione sociale, la quale può essere fonte di discriminazioni e coercizioni. E proprio qui è possibile fare un parallelo col fenomeno della medicalizzazione: come la normalizzazione egualitaria tende a svalutare la diversità e i modelli di funzionamento alternativi, così un’autocomprensione che interpreta ogni disagio emotivo come una patologia rischia di favorire una subdola coercizione sociale a sfavore dell’autenticità individuale. Infatti è plausibile prevedere che saranno proprio le caratteristiche psicosociali ad essere più vulnerabili alla pressione esercitata dalla mentalità meccanicista.

A ben vedere, il problema qui è ancora quello dell’adattamento: a volte il disagio emotivo può avere delle ottime giustificazioni di tipo sociale e potrebbe essere compromettente per la propria dignità “costringersi” ad essere felici giustificando l’intervento sotto il profilo terapeutico come una cura per certe disfunzioni. La medicalizzazione porta dunque a una de-responsabilizzazione, la quale è complice di una normalità sociale che, come scrive Carl Elliott202, alla fine si configura come una forma di tirannia della felicità. Sono evidenti qui i risvolti politici del fenomeno: per quanto il sentirsi normali sia un tratto imprescindibile onde soddisfare il nostro ancestrale bisogno di appartenenza a un gruppo sociale, viene spontaneo chiedersi fino a che punto la tendenza all’identificazione sia da assecondare, e quando invece vada a compromettere il valore dell’autonomia individuale.

12.4 Dalla medicalizzazione al conformismo

Seguendo questa linea di pensiero, è naturale avanzare una critica: facendo uso dei mezzi di biopotenziamento, il soggetto rischia di assumere una cattiva abitudine e, invece di adattare l’ambiente alle proprie esigenze, finisce per limitarsi ad adattare se stesso all’ambiente. Se consideriamo che l’ambiente in cui viviamo è soprattutto un ambiente sociale, il soggetto, sottoposto a una forte pressione psicologica, tenderà ad assecondare sempre i canoni sociali, e quindi a usare i biopotenziamenti per adeguarvisi. Questo ragionamento può estendersi ai vari ambiti toccati dal miglioramento personale, dalla forma fisica al longevismo, dall’umore alle capacità mentali.

Su queste basi la critica bioconservatrice può alimentare il timore che la futura società nella quale i biopotenziamenti saranno largamente accessibili scivolerà in una degenerazione conformista doppiamente perversa: infatti se, nel prossimo futuro, verranno introdotti sul mercato i mezzi utili a potenziare le più svariate facoltà (mentali, sociali, fisiche), dovremo aspettarci la crescente diffusione del timore di “restare indietro” e la conseguente tentazione di procurarsi qualche “marcia in più” per restare al passo e non essere discriminati. Alla fine, soprattutto nelle culture meritocratiche che basano la loro economia sulla competizione, molte persone sarebbero praticamente costrette a utilizzare le biotecnologie per migliorare i risultati della propria attività, per il profitto o anche solo per non essere discriminate. Questo tipo di pressione sociale viene indicata dal PCB come coercizione morbida (soft coercion), per distinguerla dalla repressione “forte” esercitabile direttamente da un governo o da un gruppo di potere.

Secondo questo argomento, l’esercizio della libertà individuale convergerebbe verso una concezione del potenziamento definita esclusivamente in base ai canoni sociali e suscettibile di cambiare seguendo i flussi e riflussi della moda: così i desideri di superare la condizione umana non solo sarebbero effimeri, ma potrebbero addirittura compromettere la libertà individuale alimentando la pressione conformista a loro favore. A sostegno di questa tesi, il PCB precisa che una maggiore libertà non è necessariamente accompagnata da un maggiore ventaglio di opzioni: se le possibilità offerteci dalla biotecnologia non differiscono granché l’una dall’altra perché sono tutte parimenti effimere e seguono i capricci tipici dei fenomeni di costume, l’individuo potrebbe essere spinto a spendere sempre più energie, economiche ed esistenziali, in scelte vane, fondamentalmente inutili al proprio benessere. Come si può evincere dalle tendenze della cultura popolare, è facile prevedere come il libero biopotenziamento sarà con tutta probabilità utilizzato per soddisfare i desideri umani più triviali, cosa che ci condurrà verso una maggiore omogeneizzazione.203

Sopra ho detto che la deriva coercitiva della mentalità transumanista potrebbe essere doppiamente perversa. Infatti ad un secondo livello, i biopotenziamenti potrebbero spingere le persone ad assecondare anche le norme sociali immorali invece di contrastarle: avere una particolare caratteristica è penalizzante? Bene, il mercato metterà a disposizione il biopotenziamento giusto per risolvere il problema. E così si può aumentare il seno perché le donne col seno piccolo sono meno attraenti; si può usare l’ormone della crescita perché nella società chi è più alto gode di alcuni vantaggi; si possono assumere psicofarmaci perché la gente ci vuole allegri eccetera.

Questo scenario è descritto dalla filosofa Margaret O. Little dell’Università di Georgetown quando analizza i motivi che sospingono la grande diffusione della chirurgia cosmetica204. Sempre più spesso, questa tecnica è usata per eliminare un senso di disagio che non ha alcuna origine in menomazioni o disfunzioni fisiologiche: cioè non si tratta di risolvere un problema di carattere strettamente medico, ma di recuperare tramite la modificazione del proprio aspetto un senso di benessere sociale. Seguendo il concetto esteso di salute dato dalla OMS, non sembra esserci niente di male in tutto ciò. Il problema però c’è e, secondo Little, si nasconde nei motivi alla base del disagio: se infatti gli interventi di chirurgia cosmetica vengono effettuati per adeguarsi a certe norme di apparenza, e se queste norme sono ingiuste allora il ricorso al biopotenziamento diventa un atto di “complicità al male”.

Perché non tutte le norme di apparenza sono sullo stesso piano morale? Ogni società ha una generale convergenza nelle preferenze estetiche, una concezione comune di “morfologia normale” che, pur influendo su alcune nostre scelte (ad esempio le preferenze sessuali), non solleva alcun problema morale. Se però la morfologia arriva a limitare la dignità di una persona, se cioè le reazioni della società alle deviazioni dalla norma morfologica aprono il campo a discriminazioni ingiuste (la condizione di inferiorità delle donne in una società maschilista) e pregiudizi morali (come il colore della pelle in una società razzista), allora le norme morfologiche non sono solo eccessivamente crudeli, ma hanno anche un contenuto moralmente sbagliato. Se infatti una norma estetica serve per demarcare il rispetto dovuto a un particolare individuo, significa che è parte integrante di un’ideologia ingiusta e inaccettabile in una società liberale. Il contenuto dell’ingiustizia sta nel non riconoscere, in modo pregiudiziale, il pieno status di essere umano (cioè la piena dignità) a un gruppo di persone solo perché sono caratterizzate da una determinata morfologia (donne, colore della pelle, diversamente abili, Down ecc.).

12.5 Il dilemma autenticità/complicità e la libertà morfologica

Come rispondere al timore della doppia deriva illiberale? In primo luogo, chi sostiene la realtà di una crescente diffusione del conformismo, inteso come una forma di minorità mentale che spinge l’individuo ad adattarsi alla normalità socialmente accettata, ha l’onere di dimostrare che senza i biopotenziamenti le persone saranno meno soggette a questo genere di pressioni.

Poi, quello della coercizione morbida è un falso argomento perché, vivendo già da sempre in un ambiente sociale, la nostra identità personale si costituisce giocoforza all’interno delle relazioni con le persone che ci circondano. Queste relazioni sono di vario tipo e intensità, ma possono variare dall’estremo del completo conformismo di chi si adatta sempre pur di essere accettato, a quello della totale alienazione di chi non si adatta mai (con conseguente potenziale rischio per la società stessa). Quindi, se è pur vero che molte persone sono spinte a utilizzare i biopotenziamenti per avvicinarsi a determinati canoni di bellezza e prestazioni, molte altre invece li useranno per distinguersi.

A un esame più attento si scopre allora che il punto cruciale della questione sulla dicotomia complicità/autenticità può essere ricondotto al dilemma che tutti dobbiamo porci nel valutare fino a che punto è moralmente opportuno adattarci all’ambiente sociale. Come ho già detto nel capitolo dedicato al biopotenziamento dell’umore, non esiste una soluzione unica a tale dilemma, che deve essere affrontato singolarmente da ciascuno di noi e risolto in base alle proprie convinzioni e alle proprie aspettative. Ma affinché si apra lo spazio per la decisione individuale, bisogna prima accogliere l’idea che l’uso dei biopotenziamenti per il miglioramento personale sia un bene.  Secondo il filosofo transumanista Anders Sanberg, la soluzione ai pericoli di coercizione sociale sollevati dalle pratiche di biopotenziamento passa attraverso la rivendicazione del diritto alla libertà morfologica, una prerogativa derivata dal diritto alla libertà e dal diritto alla disponibilità del proprio corpo205.

La libertà morfologica è un diritto negativo, cioè consente di poter fare certe cose, ma non implica che gli altri siano moralmente obbligati a esercitarlo; nello specifico esso implica che non è moralmente lecito:

   * obbligare qualcuno a cambiare il proprio corpo senza il suo consenso
   * impedire a qualcuno di cambiare il proprio corpo

Come si può facilmente intuire si tratta di un’estensione, anzi di una massimizzazione dell’autonomia individuale, e quindi ha dei risvolti anche sul piano della responsabilità.

Secondo Sandberg, il diritto alla libertà morfologica è il tema comune che sta alla base di molteplici dibattiti bioetici quali il diritto delle donne a gestire il proprio corpo, il doping, i diritti della riproduzione, l’eutanasia e l’opportunità di molte procedure mediche quali, ad esempio, l’accanimento terapeutico. Il diritto alla libertà morfologica rende esplicite e concrete le esigenze di fondo di tutti questi problemi, accomunandoli in un unico obiettivo.

Ma in che modo esso ci aiuta a evitare le derive illiberali?

Protezione dalla biomedicina coercitiva: se diventasse largamente accettata l’idea che abbiamo il diritto di controllare il cambiamento dei nostri corpi, sia in senso positivo (applicando i mezzi di autotrasformazione disponibili) sia nel senso negativo di essere liberi di non cambiare, allora diventa più difficile sostenere il cambiamento obbligatorio.

Spinta emancipativa: senza il diritto alla libertà morfologica, che in pratica si andrebbe a concretizzare nel libero accesso ai biopotenziamenti, le nuove tecnologie resteranno appannaggio dei governi, del sistema sanitario o comunque di determinati gruppi di potere. Questo stato di cose, per quanto senza dubbio consenta un maggiore controllo sui biopotenziamenti, d’altro canto costituirebbe un rischio pratico per la società in generale perché, nel caso in cui le politiche perseguissero inconsapevolmente delle scelte sbagliate, sarebbe l’intera società a subirne le conseguenze.

Rivalutazione dell’empatia: Inoltre, la rivendicazione del diritto alla libertà morfologica presuppone un enorme sforzo verso la tolleranza perché richiede il totale abbandono di quei canoni sociali e di quelle norme estetiche che ancora oggi usiamo per discriminare la dignità delle persone. In tal senso il diritto alla libertà morfologica può essere interpretato come un’articolazione del diritto a essere diversi e richiedere, come sostiene James Hughes206 una rivalutazione del valore morale dell’empatia, intesa come l’abilità di immedesimarsi nelle altre persone e comprenderne le emozioni. L’empatia consente di stabilire un canale di comunicazione profondo e universale capace di unire tutti gli esseri senzienti, al di là delle differenze culturali e morfologiche. Secondo Hughes,

“ha senso per una società pretendere che tutte le persone mature debbano avere capacità empatiche. Le persone senza empatia sono cittadini disabili che necessitano di un aiuto per recuperare al pieno spettro di capacità cognitive richieste per essere cittadini autonomi e responsabili.”207
Capitolo 13: Profezie di sventura, status quo e prove d’inversione
I dubbi circa la sicurezza e i rischi per la libertà individuale costituiscono, a mio modo di vedere, le preoccupazioni più stringenti e capaci di motivare l’assunzione di un atteggiamento di prudenza nei confronti delle nuove tecnologie per il biopotenziamento personale. Ma non sono le uniche. La critica bioconservatrice ha prodotto una pletora di obiezioni alla MCT usando come perno svariate ipotesi di conseguenze più o meno catastrofiche che deriverebbero dalla diffusione su larga scala delle nuove tecnologie. Qui di seguito mi limito a passare in rassegna quelle più comuni e suggestive.

13.1 Pendii Scivolosi Assortiti

Minor impegno: l’affievolimento dell’incombenza della morte ci spingerà a vivere con minor attaccamento nei confronti delle cose che facciamo. Secondo questo argomento, quanto più viviamo nella coscienza della nostra finitezza, tanto più ci impegniamo a spendere il nostro tempo in faccende di una qualche importanza. In tal senso “la scarsità di un bene contribuisce al suo valore”208. Col prolungamento della vita, la società degenererà in una massa informe di annoiati e perditempo.

Castrazione delle aspirazioni e della premura (urgency): allontanare indefinitamente l’orizzonte della nostra mortalità, soffocherà il valore che la premura conferisce al raggiungimento dei nostri obbiettivi. Senza questa premura potrebbero scemare anche le nostre aspirazioni, sempre più spesso rimandabili al domani, e di conseguenza il valore delle nostre imprese.

Stagnazione generazionale: la longevità potrebbe andare di pari passo con l’infertilità. Anche se sappiamo che potrebbe esserci un nesso biologico tra longevità e fertilità, eventualità che acquisterebbe un significato importante entro la cornice della teoria dell’evoluzione, per ora dobbiamo limitarci ad analizzare l’esperienza umana. Il dato di fatto è che, nel corso del ventesimo secolo, tutte le società privilegiate da un aumento della longevità hanno anche subito una diminuzione della natalità. La ragione principale portata dal PCB è che “senza il presentimento della nostra mortalità, potrebbe esserci minor desiderio di rinnovamento”209. Questa svogliatezza riproduttiva porterà alla scomparsa dell’entusiasmo giovanile e del desiderio di rinnovamento tipico del susseguirsi generazionale. Proprio questo tipo di saturazione verrebbe a ostacolare il progresso e la capacità di adattamento della società. Se infatti le istituzioni trarrebbero un indubbio vantaggio dalla grande esperienza di persone molto longeve, d’altra parte verrebbero rallentate dalla mancanza di nuove idee e nuove energie, elementi tipici della generazione più giovane. Infatti è proprio durante la crescita che gli individui si formano meglio, imparano meglio e riescono meglio ad adattarsi all’ambiente che li circonda. Nel corso degli anni la mente umana tende ad irrigidirsi e perde lo slancio e l’energia che aveva in passato. Alla fine la società cadrà in decadenza e collasserà.

Fobia nei confronti della morte: il progresso della medicina e le migliori condizioni igieniche e alimentari, hanno contribuito alla sospensione, nelle società occidentali, di molte cause di morte prematura. La tranquillità esistenziale che ne deriva, secondo il PCB, ha fatto diminuire il senso d’incombenza della morte tipico della storia pre-industriale. Ora, dato che le nuove tecnologie non promettono l’immortalità, la volontà di rallentare l’invecchiamento potrebbe convertirsi in una malsana rimozione della coscienza della nostra finitezza. Questa incoscienza potrebbe rendere la morte un fatto meno sopportabile, più spaventoso e ossessionante, e quindi l’era biotecnologica della longevità potrebbe diventare un’epoca di ansia, introversione e preoccupazione maggiori.

Un’altra conseguenza negativa sorgerà dal fatto che il prolungamento della vita potrebbe comportare anche il prolungamento della vecchiaia, con tutte le debilitazioni e i limiti che essa comporta: questa situazione porterà a un aumento della pressione sociale a favore dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Aumento del contrasto intergenerazionale: la forma naturale della vita umana si divide in maturazione e invecchiamento. Se l’arresto dell’invecchiamento implicherà anche una maturazione rallentata si correrà il rischio di inasprire le incomprensioni e i disagi intergenerazionali. Nelle nostre società basate sullo sviluppo individuale, i bambini sono chiamati a crescere rapidamente, perché vengono esposti sempre più spesso a eventi e scelte che tempo fa erano riservate agli adulti. Se il ciclo vitale si dilaterà, assisteremo ad una crescente disgiunzione, e a un conseguente aumento dei contrasti, tra la maturità psicofisica delle persone e le aspettative e le richieste della vita.

Inoltre, la vita sociale umana è scandita dal succedersi delle generazioni: gli adulti governano il mondo e devono prendersi cura degli anziani e dei bambini; un giorno i bambini diverranno adulti e, preso il potere, saranno chiamati a farsi carico della vecchia generazione, ormai stanca, e a dar vita e forma ad una nuova generazione. Col prolungamento dell’età adulta, le persone potrebbero restare attive e produttive per un tempo così lungo da sconvolgere il ricambio generazionale. La conseguenza diretta di questa “saturazione dell’età adulta” sarà la difficoltà per i giovani di trovare un posto nella società, costringendoli a restare per decenni in una nuova età intermedia che si verrebbe a creare tra l’adolescenza e la maturità, età in cui saranno impossibilitati a prendere il posto dei propri genitori. Tutto questo porterà a una società frammentata, pervasa dalle incomprensioni e dai contrasti tra generazioni.

Manipolazione criminale della memoria: non bisogna sottovalutare il rischio di impiego coercitivo o immorale delle tecnologie per l’alterazione della memoria perché nessuno più del malintenzionato ha interesse nel cancellare il ricordo del male inflitto. Se questi mezzi fossero facilmente accessibili e utilizzabili, molti criminali potrebbero adoperarli per assicurarsi l’impunità. C’è anche il rischio che l’assunzione di questi farmaci venga normalizzata in certe professioni, nelle quali una certa desensibilizzazione è già oggi molto utile.

Massificazione dell’uso di psicofarmaci: se l’uso di queste tecnologie sarà lasciato in mano alle singole persone, l’intera società potrebbe degenerare in uno di due estremi: un gruppo di individualisti che vivono da soli, in un’ossessiva introversione centrata sul proprio stato d’animo farmacologicamente condizionato; oppure una società di schiavi che fanno uso di queste sostanze solo per incontrare la pubblica compiacenza.

Estraniazione dalla società: La principale minaccia che l’uso la manipolazione biotecnologica della nostra mente pone alla felicità, risiede nella estraniazione dal mondo e dai sentimenti, dalle passioni e dalle qualità mentali e caratteriali che ci consentono di vivere bene. Una condizione essenziale per vivere bene nel mondo è la conoscenza di se stessi e degli altri; usando la biotecnologia come scorciatoia, non accresciamo la conoscenza di noi stessi, anzi la dichiariamo inutile; ma in tal modo la felicità acquisita è immeritata, falsa. Le sensazioni di dolore e di piacere sono il risultato di un’evoluzione che tende all’adattamento nel nostro ambiente; ponendo in corto circuito la relazione stimolo- risposta, rischiamo di porci in una condizione di disinteresse per il mondo, per la società in cui viviamo, per le persone che ci circondano e, infine, anche per noi stessi.

Bioluddismo di sinistra: nelle società capitaliste l’iniquità economica prospera. Il più grande simbolo di questa iniquità sono le multinazionali, corporazioni guidate dai ricchi che pensano solo ai loro sporchi interessi e al profitto. Siccome lo sviluppo delle tecnologie NBIC per il potenziamento personale richiede enormi finanziamenti ad alto rischio, è facile prevedere che sarà appannaggio delle multinazionali (già oggi, gran parte della ricerca attinente ai settori NBIC, è finanziata dalle multinazionali). I risultati delle ricerche saranno proprietà privata dei ricchi ed è inevitabile che verranno sfruttati per inasprire le iniquità sociali. Alla fine avremo dei cittadini postumani biopotenziati e una grande massa di umani versione 1.0, e la società sarà meno libera e più ingiusta.

Brave New World: Mettendo assieme queste profezie di sventura, otteniamo la previsione di un mondo dove il progresso si rivela una decadenza, una realtà simile a quella descritta da Aldous Huxley nel suo romanzo Brave New World, dove la società è divisa in caste genetiche, i bambini sono specificamente progettati ed educati per svolgere determinati lavori e nascono in serie, e gli adulti fanno sempre uso di psicofarmaci per non provare mai alcuna sensazione di disagio e sono costantemente bombardati da condizionamenti mediatici: un luogo in cui la vita, dalla nascita alla morte, è organizzata affinché tutti siano sentimentalmente vuoti, superficiali, ignoranti, ma felici.

13.2 Basta così?

Non so quanto sia conveniente rispondere a queste profezie prendendole in considerazione una per una. Forse si rischierebbe di ridurre il dibattito e il dialogo costruttivo a una polemica sterile, perché al cuore di tutte queste obiezioni spesso non c’è solo il desiderio di metterci in guardia, per riflettere sulle iniziative da prendere al fine di cogliere i frutti migliori delle nuove tecnologie per il biopotenziamento personale. Purtroppo lo scopo ultimo di questo tipo di provocazioni è quello di alimentare un misto di paura e disprezzo per il nuovo, agitando lo spettro delle catastrofi che, nonostante siano solo ipotesi credibili, sono presentate come inevitabili. Sorge allora spontaneo chiedersi se ci sia un motivo di fondo per cui i bioconservatori paventino di un possibile credendolo inesorabile: non si tratterà forse, come già accennato in precedenza (vedi §10.1), della profonda sfiducia nell’autonomia umana, di uno scetticismo radicale circa le capacità dell’uomo di governare le proprie azioni? Ma se anche così fosse, e, a giudicare da quanto ci narra la nostra storia, non sembra un’ipotesi tanto azzardata, quale sarebbe l’alternativa? A chi dovremmo rimettere la responsabilità di quanto facciamo o non facciamo? Le mie non vogliono in alcun modo essere domande retoriche, bensì sinceri dubbi circa il ruolo che l’uomo contemporaneo debba assumere nei confronti del suo stesso potere.

Supponiamo di essere per un momento persuasi da alcune o anche da tutte queste profezie. Il controllo tecnico (o le tecniche di controllo che dir si voglia) del corpo umano è troppo pericoloso e le persone non sono abbastanza intelligenti e/o mature per gestire tutta questa egemonia. Cosa fare allora? Come giustificare la rinuncia alle enormi potenzialità promesse dalla convergenza NBIC? In breve, qual è la proposta dei bioconservatori? Per contrastare il fervido ottimismo di chi crede nel progresso scientifico e tecnologico, l’unica soluzione sembra consistere nell’esaltazione delle nostre attuali condizioni. La massima centrale del bioconservatore suonerebbe più o meno così:

Massima dello status quo: non è né etico né desiderabile utilizzare i mezzi tecnoscientifici per superare la condizione umana perché questa è buona così com’è. Il suo superamento equivarrebbe in realtà ad un peggioramento.

Su questo concetto il saggista statunitense Bill McKibben ha scritto un libro intero, ma la sua tesi principale è riassumibile nella seguente frase:

“Rispetto al passato, abbiamo raggiunto un livello di grande comodità e agio; la vera questione è se, ciò nonostante, vogliamo scambiare quanto abbiamo per qualcosa di essenzialmente ignoto.”210

McKibben esprime bene l’unica proposta che i bioconservatori possono offrire per convincerci ad abbandonare le aspirazioni miglioriste che da secoli albergano nell’animo umano. Dobbiamo, molto semplicemente, rinunciare alla possibilità di assumere un maggiore controllo (e quindi evitare di addossarci una maggiore responsabilità) del nostro corpo e fermarci a celebrare ciò che ci è stato dato in dono e ciò che fino ad oggi siamo riusciti a conquistare. Si potrebbe supporre che ogni desiderio di superamento nasca in fin dei conti dal disprezzo per se stessi e, contro questa mentalità dell’odio e dell’insoddisfazione destinata a condurci verso la catastrofe, noi possiamo e dobbiamo opporre lo status quo tecnoscientifico.

“Viviamo già abbastanza bene da non aver bisogno di un prodigioso soccorso genetico, di un deus ex nanomachina, di una fiaba col lieto fine pieno di robot morali.”211

Secondo McKibben è meglio accontentarsi e non rischiare. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: cosa ci fa pensare che non potremmo ottenere dei concreti miglioramenti grazie ad un uso accorto delle nuove tecnologie? E se non ci è consentito sperimentare gli azzardi del nuovo, perché non tornare indietro e abbandonare le tecnologie e le conoscenze che già oggi, sotto i nostri occhi, stanno in parte già provocando ingenti danni all’ambiente e all’intera umanità? Perché proprio la nostra attuale condizione dovrebbe essere quella giusta? Il problema delle visioni catastrofiche sollevate dalla critica bioconservatrice, puntualmente seguite dal ricorso al solito principio di precauzione, è che poggiano con troppo fervore su una leva tanto fragile sul piano intellettuale quanto disastrosa su quello politico e sociale: il pregiudizio. Molti argomenti contro il miglioramento umano che prendono di mira le conseguenze potenzialmente disastrose dell’uso delle nuove tecnologie, in realtà si limitano a preferire in modo irrazionale la conservazione dello stadio tecnoscientifico attuale. Per fortuna in un recente articolo212, i filosofi transumanisti Nick Bostrom e Toby Ord presentano un’euristica volta a svelare e correggere questo pregiudizio a favore dello status quo.

13.3 La Prova dell’Inversione di Bostrom e Ord

Un grosso problema quando si cercano di valutare le conseguenze delle proprie azioni è quello epistemologico: man mano che l’analisi getta lo sguardo verso il futuro, la nostra capacità di prevedere si fa sempre meno attendibile. La valutazione, nel corso che va dal breve al lungo termine, perde affidabilità e alla fine ci ritroviamo letteralmente senza ragioni per suffragare la convenienza piuttosto che l’inopportunità di una determinata scelta. Proprio questo è il caso del biopotenziamento: come lapidariamente scrivono Bostrom e Ord, “è impossibile conoscere quali saranno le conseguenze a lungo termine di questo tipo d’interventi”213. Questa impossibilità si estende oltre le conseguenze materiali, ovvero, anche se riuscissimo a prevedere gli effetti con piccoli margini d’errore, il nostro giudizio dovrebbe comunque mettere in conto l’evenienza che, in un futuro così lontano, molte altre condizioni al contorno potrebbero essere cambiate, influendo sul nostro apprezzamento degli effetti.

Nondimeno siamo pure chiamati a pronunciare un giudizio. Come fare allora per esprimersi al meglio delle nostre attuali possibilità? Conviene effettuare un esame di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti per il problema in questione. Se infatti trascuriamo qualche dato importante, in seguito avremo più probabilità di ritrovarci con conseguenze inattese e, forse, indesiderate. Se la razionalità rientra nel nostro interesse, siamo allora chiamati non solo a migliorare l’euristica per acquisire una maggiore conoscenza pertinente, ma anche a mettere in evidenza e in discussione i nostri comuni preconcetti. Questa è l’unica via per cui si può giungere al giudizio razionale, o meglio, solo tramite questa procedura si può aumentare la ragione dei nostri giudizi: raccogliendo tutte le conoscenze relative al fenomeno da giudicare, e procedendo sulla loro base a una riflessione sul pregiudizio. Come si può facilmente intuire, siccome non si darà mai il caso in cui sia possibile prendere in considerazione tutte le conoscenze pertinenti ed effettuare una riflessione completa, allora la razionalità di un giudizio dev’essere intesa in senso graduale: possiamo e dobbiamo essere pronti riflettere sulle opinioni acquisite, con l’obiettivo di poterci arricchire con conoscenze più adeguate ed esprimere un giudizio più avveduto, pur sapendo che, ogni volta, il nostro punto di partenza sarà sempre un pregiudizio suscettibile, in futuro, di essere messo in discussione. Ogni giudizio che voglia appellarsi a un minimo di ragionevolezza, deve quindi muoversi dal suo stadio iniziale esprimibile solo in base alla conoscenza pregressa e, alla luce di nuove informazioni attinenti, mettere sempre in discussione il punto di partenza di ogni nostra opinione, nonostante la consapevolezza che il risultato raggiunto sarà a sua volta caratterizzato in parte da un carico di valori e credenze date per buone.

Questa puntualizzazione sul valore del pregiudizio e sull’opportunità di una riflessione razionale a partire da esso potrebbe sembrare superflua, ma in realtà non è mai fuori luogo ribadirla: e infatti un gran numero di argomenti conservatori fa leva proprio su qualche tipo di pregiudizio, sostenendo velatamente che esso sia abbastanza sicuro e stabile da rendere la riflessione razionale alla luce di nuove conoscenze pressoché inutile. Nel succitato articolo, Bostrom e Ord prendono di mira proprio il pregiudizio conservatore che accomuna gli argomenti basati sulle profezie di sventura, e ne mostrano la diffusione nel nostro comune modo di pensare.

Pregiudizio (a favore) dello status quo: in linea generale, tendiamo a preferire lo status quo anche se ciò è irrazionale, cioè anche se siamo ragionevolmente sicuri di ottenere maggiori benefici tramite un determinato cambiamento.

Chiaramente, additare il pregiudizio altrui non è una strategia molto efficace per sostenere la propria tesi. Nel nostro caso, il bioconservatore potrebbe semplicemente rispondere che anche l’opinione transumanista sia viziata dal pregiudizio, quello a favore delle novità tecnologiche o del mero cambiamento. Come fare per dirimere la questione? La proposta di Bostrom e Ord è tanto semplice quanto incisiva. Basta porsi la domanda inversa: sarebbe opportuno usare un qualche metodo per peggiorare (o meglio, depotenziare) una caratteristica umana?

“Prova dell’Inversione: Quando si pensa che la proposta di cambiare un certo parametro possa avere conseguenze complessivamente negative, bisogna prendere in considerazione il cambiamento dello stesso parametro nella direzione opposta. Se si pensa che anche questo cambiamento avrà conseguenze negative, allora chi ha tratto tali conclusioni ha anche l’onere di spiegare perché la nostra condizione non possa essere migliorata grazie al cambiamento del parametro in questione. Se questi non è capace di fornire una spiegazione, allora abbiamo ragione di sospettare che il suo argomento sia viziato da un pregiudizio a favore dello status quo.”214

In pratica, la prova dell’inversione vuole smascherare il pregiudizio irrazionale che vede in una data caratteristica umana l’optimum locale, cioè una condizione di bontà massima relativamente alle circostanze attuali. Con questa prova non si asserisce quindi a priori l’inadeguatezza dello status quo, ma si solleva, molto più semplicemente, la legittimità del dubbio: le probabilità di trovarsi in una condizione ottimale rispetto all’ambiente del momento sono infatti alquanto basse.

“... se un parametro continuo ammette un vasto spettro di valori possibili, dei quali tutti gli optima locali costituiscono solo un piccolo sottoinsieme, allora è prima facie inammissibile che il valore attuale di tale parametro sia proprio uno di questi rari optima locali. Per questo affermiamo che l’onere della prova spetta a chi sostiene che un qualche parametro attuale sia proprio un optimum locale: bisogna fornire una buona ragione per accettare questa supposizione.”215

Ma questo è proprio il punto debole della massima dello status quo. Tutte le caratteristiche prese in considerazione finora, e cioè la durata della vita attiva, le prestazioni psicofisiche e il benessere emotivo, sono di fatto migliorabili sotto tutti i punti di vista (a prescindere dai mezzi utilizzati e purché non si rechi danno ad altri). E ciò significa né più né meno che la proposta di dichiararsi improvvisamente soddisfatti della attuale condizione umana non può essere suffragata dalle profezie di sventura.  

13.4 Finale per bioconservatori

La proposta di McKibben, sebbene non riassuma la vastità delle critiche alla MCT, coglie però molto bene la soluzione offerta dai bioconservatori alla convergenza NBIC per il potenziamento umano. In primo luogo dovremmo rinunciare all’idea di poter migliorare le nostre condizioni usando la tecnologia. Poi, dovremmo mettere al bando tutte quelle ricerche che in qualche modo potrebbero contribuire ad aumentare il controllo del corpo e della psiche umani. Nel corso dei precedenti capitoli ho cercato di mostrare come tutte le obiezioni sollevate contro la MCT siano, in un modo o nell’altro, deboli. Ora, con la debolezza del ricorso alle profezie di sventura, la proposta conservatrice mostra tutta la sua inconsistenza.

Conclusioni

14.1 Conosci te stesso

Nel corso del presente lavoro ho cercato di analizzare la portata delle critiche, siano esse mosse da questioni di principio o da richieste di prudenza, rivolte a quella che ho definito “massima centrale del transumanesimo”. Se le mie conclusioni sono ragionevoli, quegli attacchi, se da un lato hanno pure il pregio di metterci in guardia contro le interpretazioni disdicevoli di un precetto tanto generico e di stemperare gli ottimismi avventati, sono decisamente troppo deboli per poter guastare la legittimità morale dei desideri che la sottendono. Eppure la mia analisi non può esaurirsi qui, perché una domanda fondamentale è ancora senza risposta: appurato che, a parte i dovuti emendamenti, usare mezzi tecnoscientifici per superare la condizione umana non implica aberrazioni, turpitudini o rischi inaccettabili, perché dovremmo prefiggercelo come desiderabile massima morale? Che cosa ha di veramente così desiderabile da offrirci? Infatti, se da un lato gli ostacoli posti dalla parte bioconservatrice alla legittimità della MCT non sono sembrati insormontabili, resta invece insondato il dubbio circa il senso stesso del cercare il superamento della condizione umana. Non a caso, l’ultimo argomento “forte” sollevato dai detrattori del transumanismo cerca proprio di sminuirne la desiderabilità: siamo sicuri che ottenere prestazioni superiori, corpi senza età e anime felici sia davvero ciò che può migliorare la nostra vita? Non sono forse questi dei desideri futili che offuscano invece di illuminare il percorso verso la felicità?

La risposta ora non è così ovvia come poteva sembrare all’inizio. È vero, migliorare se stessi, prolungare la propria vita attiva, sperimentare nuove strade per raggiungere il benessere psicoemotivo, sono tutti dei valori pressoché universali, e comunque, anche se non lo fossero, la debolezza delle obiezioni di principio esaminate basterebbe per consentire alla coscienza morale delle singole persone (pur regolamentata dalle esigenze collettive di sicurezza) di decidere in merito. Per questa via però, la MCT si mostrerebbe una massima alquanto debole, un precetto che ha il mero pregio di non entrare in contrasto con i valori fondamentali della nostra società. In effetti è sotto questa luce che molti detrattori interpretano il desiderio di superare la condizione umana, cioè come un vano capriccio sollevato da alcuni tecnofili dotati di una fervida immaginazione. Vediamo in che modo il transumanista può rispondere alla domanda di senso.

14.2 Che cosa resta della MCT?

Le obiezioni di principio alla MCT hanno mostrato che un problema interno alla prospettiva transumanista consiste nell’esigenza di coniugare il desiderio di tecno-trascendenza con quello di conservare alcuni valori fondamentali delle società democratiche. L’applicazione radicale dei biopotenziamenti potrebbe infatti cambiare la nostra condizione a tal punto da farci diventare postumani, esseri così diversi da risultare paragonabili con Homo Sapiens nella misura in cui questi lo è agli altri primati. È chiaro che una prospettiva del genere, posto che sia realizzabile, impiegherebbe la manipolazione di intere generazioni e, pertanto, appartiene più al regno della fantascienza che a quello della riflessione bioetica. Ai fini del nostro discorso però, credo sia interessante cercare di capire fin da ora quali conseguenze il percorso di trascendenza verso il postumano, pur entro i limiti del biopotenziamento personale, potrà avere su alcuni valori attuali.

Per rispondere in modo costruttivo a queste critiche ho cercato di sviluppare una serie di vincoli e raccomandazioni atti a contenere l’eccessiva generalità della MCT, generalità che presta il fianco ad interpretazioni aberranti.

Sul piano dell’etica privata:

  1. Il transumanismo deve prendere le distanze da ogni ideale di perfezione umana o postumana. Nonostante i desideri di lunga vita, prestazioni superiori e felicità possano sembrare universali, la direzione del miglioramento deve restare una prerogativa individuale e una scelta autonoma.
  2. Il transumanismo, se vuole davvero caratterizzarsi per la sua razionalità laica, deve abbandonare il sogno di raggiungere l’immortalità attraverso la tecnologia. Bisogna puntare piuttosto sui concetti di “prolungamento della vita attiva” e “morte come scelta volontaria”.
  3. Nel valutare l’opportunità dell’impiego dei biopotenziamenti dell’umore, bisogna sempre stabilire fino a che punto si è disposti a scambiare l’autenticità delle proprie esperienze con la sensazione di un maggior benessere psicoemotivo. Anche qui, non esiste una condizione emotiva al contempo ideale e immutabile: a volte potrebbero esserci degli ottimi motivi per sentirsi a disagio o adirati.
  4. Prima di impiegare un biopotenziamento bisogna sciogliere il dilemma se, nel caso specifico, sia più giusto modificare il nostro corpo o la nostra psiche, oppure modificare l’ambiente affinché diventi un posto migliore. Questa decisione spetta alle singole persone e dev’essere reiterata di volta in volta perché che cosa sia un miglioramento dipende dalle condizioni specifiche dell’ambiente in cui si vive e dal sistema di valori adottato.
  5. La condizione postumana racchiude un enorme ventaglio di condizioni e non sempre è chiaro il percorso da seguire. Per questo siamo chiamati ad accrescere la nostra consapevolezza delle cause e delle conseguenze nell’applicare le nuove tecnologie, cercando di compiere le scelte migliori: in questo senso dovremmo accogliere l’avvertenza di Bostrom, per cui è necessaria una certa dose di “provvisorietà epistemica”, nel senso che dobbiamo sempre essere disposti a mettere in discussione i nostri pregiudizi, cercando di migliorare costantemente la nostra conoscenza del mondo.

Sul piano dell’etica pubblica:

  6. Bisogna riconoscere, ad ogni persona adulta e capace d’intendere e di volere, il diritto alla libertà morfologica, cioè la facoltà di esprimersi anche attraverso l’intervento sul proprio corpo e sulla propria mente, purché ciò non leda l’altrui libertà.
  7. Le istituzioni devono assicurare la protezione dalle minacce alla privatezza e all’incolumità derivanti dall’uso improprio delle nuove tecnologie. Inoltre, devono assicurare che le tecnologie coinvolte nel controllo dell’umore non creino dipendenza.
  8. Le istituzioni devono garantire ad ogni cittadino eque opportunità di biopotenziamento. Nell’ottica della sanità pubblica inoltre, conviene adottare una mentalità volta alla prevenzione piuttosto che alla cura delle malattie, mentalità che potrebbe concretizzarsi con più efficacia se l’obbiettivo principale della ricerca e della profilassi fosse l’invecchiamento stesso.
  9. Il biopotenziamento personale è un grande potere e quindi una grande responsabilità. La società ha il diritto di tutelarsi imponendo alcune riserve all’impiego delle nuove tecnologie. Anzitutto molti biopotenziamenti potrebbero essere proibiti ai minorenni e alle persone socialmente pericolose. Inoltre, per gli interventi più drastici, potrebbe essere richiesto il superamento di esami atti a valutare l’idoneità del richiedente. Per i biopotenziamenti più pericolosi si potrebbero istituire particolari licenze.
 10. Affinché sia possibile esplorare lo spazio postumano è necessario che esistano persone capaci farlo. Pertanto bisogna assolutamente evitare il rischio esistenziale dell’annichilimento della vita intelligente.216

14.3 Il duplice valore del biopotenziamento

Se siamo disposti ad accogliere il diritto alla libertà morfologica e se accettiamo il carattere individuale del concetto di “superamento della condizione umana”, abbiamo le basi per apprezzare il miglioramento personale nel suo duplice valore, morale ed epistemologico.

Sul piano dell’emancipazione individuale, la maggiore possibilità di controllo sul corpo e la mente dischiusa dalle nuove tecnologie costituisce un salto di qualità. Grazie ai biopotenziamenti le persone potranno essere più libere di realizzare i propri sogni e le proprie aspettative, e potranno dar forma in modo più autonomo alla loro identità. Se riusciremo a farci carico delle grandi responsabilità conseguenti all’agire postumano, la qualità dell’esistenza delle persone ne gioverà.

Sul piano della conoscenza, il biopotenziamento può configurarsi come una delle strade più efficaci per esplorare il mondo in generale e il regno vivente in particolare. Grazie al miglioramento delle nostre facoltà mentali e al prolungamento della vita, potremo aprirci un varco su uno spazio di esperienze postumano217 estremamente più vasto di quello accessibile attraverso i mezzi, tecnici e biologici, di cui attualmente disponiamo. Questo ampliamento degli orizzonti conoscitivi potrebbe avere delle ricadute positive anche sul piano etico, proprio perché ci aiuterà a prevedere le conseguenze delle nostre azioni e a scegliere con maggiore cognizione di causa le linee di condotta migliori.
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Riferimenti

AA. VV. dell’Immortality Institute, The Scientific Conquest of Death, LibrosEnRed 2004, libro disponibile in rete presso http://www.imminst.org/

AA. VV., The Transhumanist Declaration, disponibile in rete presso http://www.transhumanism.org/

Bartolommei Sergio, Precauzione sospetta. Un commento al documento del CNB sul principio di precauzione, in Bioetica. Rivista interdisciplinare, n°4, Zadig, Milano 2005, p. 15 e seg.

Bostrom et al., The Transhumanist FAQ, disponibili in rete presso http://www.transhumanism.org/ tradotte e reperibili in rete presso www.estropico.com

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http://www.transumanisti.it/

La home page dell’Associazione Italiana Transumanisti.

http://www.estropico.com/

Un sito aggiornato e ricco di informazioni dove è possibile trovare la traduzione di molti articoli e libri di interesse transumanista.  

http://www.nickbostrom.com/

Il sito di Nick Bostrom, direttore del Future of Humanity Institute presso l’Università di Oxford, nonché co-fondatore della World Transhumanist Association.

http://www.aleph.se/Trans/

Il sito di Anders Sandberg, filosofo transumanista, contiene una esauriente raccolta di articoli e riferimenti bibliografici su tutti gli aspetti del transumanismo.

http://www.bioethics.gov/

Il sito del President’s Council on Bioethics, dove è possibile reperire il rapporto “Beyond Therapy” e molto altro materiale.

http://www.enhanceproject.org/

Il sito del progetto biennale “ENHANCE” finanziato dall’Unione Europea, il cui scopo è quello di indagare i risvolti etici dell’impiego di nuove tecnologie per il miglioramento del corpo umano. Sono disponibili i rapporti delle varie conferenze.

http://www.ieet.org/

Il portale dell’Institute for Ethics and Emerging Technologies, un organismo nonprofit fondato da Nick Bostrom e James J. Hughes con lo scopo di indagare le implicazioni sociali dello sviluppo tecnologico. Raccoglie numerosi interventi e notizie tratti da varie fonti in rete.

http://www.kurzweilai.net/

Il sito di Ray Kurzweil in cui si possono trovare molti articoli di futurologia sui temi della convergenza tecnologica, la nanotecnologia, l’intelligenza artificiale e il prolungamento della vita.

http://transumanar.com/

Il blog - rivista online transumanista di scienza, politica e cultura, curato da Giulio Prisco, attuale direttore esecutivo della World Transumanist Association.

http://www.foresight.org/

Il sito del Foresight Institute, un’organizzazione senza scopo di lucro fondata da Eric Drexler nel 1986 con lo scopo di indagare le potenzialità e i rischi delle nanotecnologie.

http://www.jetpress.org/

Il sito del Journal of Evolution and Technology, una pubblicazione elettronica peer-reviewed pubblicata dall’Institute for Ethics and Emerging Technologies. Di particolare interesse è il Volume 14, dedicato al rapporto fra transumanismo e religione.

http://www.neuroethics.upenn.edu/

Un sito curato da Martha J. Farah, direttore del Center for Cognitive Neuroscience presso l’Univeristà della Pennsylvania, e dedicato ai risvolti etici delle neuroscienze. Contiene molti riferimenti alle pubblicazioni accademiche che trattano di neuroetica.

http://www.imminst.org/

Il portale dell’Immortality Institute, una organizzazione no profit la cui missione è “soggiogare la maledizione della morte involontaria”. Ospita un forum molto attivo e numerosi articoli scientifici di gerontologia.

http://www.sens.org/

Il sito del progetto SENS, gestito dal dottor Aubrey de Grey.

http://www.cognitiveliberty.org/

Il sito del Center for Cognitive Liberty and Ethics, formato da studiosi di varie discipline interessati alla preservazione e all’aumento della libertà di pensiero, con una particolare attenzione per le nuove tecnologie cognitive.

http://www.maxmore.com/

Il sito di Max More, filosofo e futurologo transumanista, cofondatore dell’Extropy Institute.


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Sezione Prima: Panoramiche

Sezione Seconda: Due argomenti preliminari

Sezione Terza: Obiezioni di principio



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